La Torre di Babele

Informazioni Evento

Luogo
EX FABBRICA LUCCHESI
Piazza Macelli 97, Prato, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

martedì - domenica 11:00 - 19:00
[Chiuso il lunedì]
Nei giorni 16 e 17 ottobre la mostra rimarrà aperta fino alle ore 23:00.

Vernissage
12/10/2016

ore 18

Biglietti

ingresso libero

Patrocini

Promosso da
ANGAMC

In collaborazione con
Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci

Artisti
Arcangelo Sassolino, Luigi Carboni, Matteo Basilé, Aron Demetz, Paolo Icaro, Luigi Ontani, Hermann Nitsch, Vittorio Corsini, Bruno Ceccobelli, Piero Gilardi, Giuseppe Chiari, Carlo Colli
Curatori
Pietro Gaglianò
Generi
arte contemporanea, collettiva

Il tema della torre di Babele che guida il disegno curatoriale della mostra si riferisce alla sfida, al superamento del limite, alla ricerca di una visione che muove la volontà umana nella vicenda biblica.

Comunicato stampa

Le gallerie ANGAMC toscane
e il Centro Pecci di Prato
presentano:

La Torre di Babele
a cura di Pietro Gaglianò

Inaugurazione: 12 ottobre h. 18.00

dal 13 ottobre al 6 novembre
Ex fabbrica Lucchesi, Piazza Macelli, Prato

La Toscana del contemporaneo è data anche da un arcipelago di presenze che, su tutto il territorio regionale, da anni contribuiscono a diffondere una cultura estetica eterogenea, in connessione con la storia e il contesto, ma rigorosamente autonoma. Le gallerie d’arte contemporanea in Toscana definiscono un panorama ampio con identità e prospettive differenti, ora più rivolte ai maestri del Novecento ora più sperimentali, con una comune aspirazione al confronto, non sempre facile, con l’ecosistema culturale in cui operano.
La Torre di Babele, a cura di Pietro Gaglianò, tratteggia una geografia di queste realtà, coinvolgendo più di venti gallerie toscane aderenti all’Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea (ANGAMC), e presentandole attraverso il lavoro di un singolo artista che ne rappresenta, sia pure in modo parziale, la storia e la vocazione.
Il tema della torre di Babele che guida il disegno curatoriale della mostra non si riferisce tanto alla molteplicità del linguaggio, quanto all’azione, alla sfida, al superamento del limite, alla ricerca di una visione che muove la volontà umana nella vicenda biblica. Gli artisti presenti in mostra lavorano sullo spostamento del confine di cosa viene considerato possibile, sulla narrazione di questo percorso, sulla dichiarazione di quel coraggio visionario che anima la genesi dell’arte, e oltre, arrivando a implicare lo spettatore.
La varietà degli alfabeti formali, dalla pittura alle installazioni più complesse, e dei profili degli autori, si ricompone nel percorso della mostra attorno a questo tema: ventitré opere di grande formato, in alcuni casi realizzate o ripensate specificamente per lo spazio della Ex Lucchesi di Prato dove maestri nazionali e stranieri con una consolidata carriera coabitano con artisti di più recente generazione, per lo più italiani, già affermati e riconosciuti per l’autonomia formale e concettuale della loro ricerca.

Gli artisti

Matteo Basilé

Manfredi Beninati

Renata Boero

Luigi Carboni

Francesco Carone

Bruno Ceccobelli

Giuseppe Chiari

Matteo Ciardini

Carlo Colli

Fabrizio Corneli

Vittorio Corsini

Marta Dell’Angelo

Aron Demetz

Piero Gilardi

Zoè Gruni

Michele Guido

Paolo Icaro Chissotti

Paolo Leonardo

Giuseppe Maraniello

Paolo Masi

Hermann Nitsch

Luigi Ontani

Arcangelo Sassolino Le gallerie

ZetaEffe Galleria

Galleria Poggiali

Galleria Open Art

Tornabuoni Arte

SpazioA

Guastalla Centro Arte

Armanda Gori Arte

Paola Raffo Arte Contemporanea

Die Mauer

Galleria Susanna Orlando

Claudio Poleschi Arte Contemporanea

Passaggi Arte Contemporanea

Galleria d’Arte Barbara Paci

Galleria Giraldi

Galleria Il Ponte

Eduardo Secci Contemporary

Marcorossi artecontemporanea

Galleria Bagnai

Flora Bigai Arte Contemporanea

Galleria Frittelli Arte Contemporanea

Galleria d’Arte Frediano Farsetti

Santo Ficara Arte Moderna e Contemporanea

Galleria Continua

L’uguaglianza di Babele
Pietro Gaglianò
“scrivere significa cercare di comprendere”
Hannah Arendt

Nel racconto biblico della Torre di Babele si riconoscono almeno due temi portanti, entrambi riconducibili al senso dell’arte e alla sua dimensione politica nelle geometrie dei costrutti sociali ed egemonici. Il primo è nelle premesse della vicenda biblica: nella volontà umana di superare il limite consentito, sfidando con l’esercizio dell’ingegno i precetti sui confini imposti. In questa prospettiva la Torre di Babele è leggibile come l’emblema della coscienza che la cultura umana ha della propria solitudine: una consapevolezza che diventa hybris al cospetto della verticalità del potere e che muove l’uomo a spingersi oltre la sfera del vero, del verificato, del plausibile. A qualsiasi costo. L’architettura biblica è l’emblema di una volontà visionaria, di un potenziale inespresso che tende all’inesplorato. La Torre sfida il mondo così com’è, armata del suo gigantismo dalle fondamenta fragili e di una laica fiducia nella propria tensione, e proprio in quel mondo colloca un aspetto del possibile che prima non vi era contemplato. Che è esattamente quello che fa l’arte.
Il secondo tema è nelle conseguenze dell’anatema divino che in prima battuta rende gli uomini incomprensibili gli uni agli altri, in un balbettio poliglotta, condannando la Torre di Babele a rimanere incompiuta. Il fallimento della sua costruzione costituisce il principio cosmogonico della diversificazione del linguaggio: con la dispersione dell’unità linguistica la parola si solleva dall’aderenza meramente descrittiva, si stacca dalla misura tangibile delle cose e diventa portatrice di significati simbolici, nomina qualcosa per significare qualcos’altro. Nel momento in cui gli uomini cominciano a usare termini diversi per lo stesso concetto, perché un dio geloso e vulnerabile ha inteso punirli così, la loro possibilità interpretativa si moltiplica e diventa, insieme con il pensiero e la facoltà immaginativa, parte di una virtù resistente. Questa capacità dell’umanità divenuta multilingue è un’altra metafora del lavoro compiuto dall’arte: in entrambi i casi si elabora ulteriormente il processo in cui l’intelletto acquisisce autonomia nella visione della realtà. L’arte, quando si manifesta e accade, quando non è mera propaganda o piatta riproduzione, mina i legami di causalità dei sistemi gerarchici sbaragliando così le logiche della funzione e l’asservimento del pensiero alla necessità. In questo senso si può individuare nell’immaginazione una qualità politica (e anche etica), propriamente resistente, che filtra in modo diretto nelle forme dell’arte.
Le opere de La Torre di Babele esistono tutte in una doppia condizione . Sono state scelte perché interpretano, in modi diversi e originariamente irrelati tra loro, alcuni o tutti i temi che guidano la mostra: il superamento del limite, la contestazione dell’autorità, il rapporto con l’indicibile, l’evocazione dell’invisibile e, sul piano formale, la molteplicità del linguaggio. E tutte insieme compongono un atlante temporaneo in cui le ragioni di ognuna si riverberano nel disegno complessivo. Al tempo stesso ogni opera contiene e raffigura un collasso del tentativo di ridurre l’intelletto e di uniformarlo, ognuna è una rappresentazione aperta, discorde, alla lettera babelica. La varietà degli alfabeti formali con cui questi lavori si presentano al mondo, dai linguaggi storici alle installazioni più irrituali, insiste sulla dichiarazione di quel coraggio visionario che anima la genesi dell’arte, arrivando ogni volta a implicare lo spettatore come interlocutore intelligente, desiderante, potenzialmente abile a riformulare il senso dell’opera e il suo posizionamento rispetto a essa.
La Torre di Babele mette in scena una “utopia del disincanto”: gli artisti sono come altrettanti architetti babilonesi, incauti e tenaci, costruttori dell’invisibile attraverso il visibile. Le opere sono la prova di un tentativo di emancipazione. Una professione di fede secolare nell’abilità dell’atto poetico, ripulito da qualsiasi mistificazione, come spazio di incontro immaginifico e morale. L’azione dell’architetto di Babele corrisponde all’idea che Jacques Rancière esprime sull’opposizione tra la lezione emancipatrice dell’artista e quella del professore (da intendere come simulacro e agente del potere verticale): “l’artista ha bisogno dell’uguaglianza come colui che spiega ha bisogno dell’ineguaglianza. E abbozza così il modello di una società ragionevole in cui proprio ciò che è esteriore alla ragione – la materia, i segni del linguaggio – è attraversato dalla volontà ragionevole: quella di raccontare e far provare agli altri ciò in cui si è simile a loro” .
Molto prima di tutto questo, nel nucleo iniziale del modello di cui scrive Rancière, nel rapporto che l’artista crea con il pubblico si trova l’enunciazione di un territorio condivisibile nel quale si intravede ancora una volta il primato della lingua, intesa come emanazione del pensiero, come sua epifania, come atto volitivo: l’esercizio della lingua che per Hannah Arendt è il processo stesso del pensiero. La pluralità delle lingue riflette il potere rigenerante dell’arte, e le une e l’altra discendono dalla Torre di Babele. Entrambe allenano la mente a muoversi in ambiti non controllabili e racchiudono un’azione dissenziente nell’instante in cui vengono concepite. Entrambe puntano a modi diversi di comprendere il mondo, lo articolano e lo rendono complesso: la semplificazione (l’omologazione di quel che è e di quel che appare) è antitetica alla comprensione.
Le mura imperfette di Babele sono il punto di partenza per una revisione che condiziona la storia dell’umanità senza bisogno di compiersi: ogni tentata (e anche ogni riuscita) neutralizzazione dell’arte nell’organizzazione del potere testimonia la sua forza, la presenza di questa inesorabile influenza sulla realtà. La loro apparente inefficacia racconta il fondamento, l’esito, la paradossale parabola di una permanente e incompleta rivoluzione.

Mi sembra importante evidenziare che nello stesso spazio descritto dalle opere in mostra giace un’altra geografia, quella delle gallerie toscane che da anni lavorano per contribuire a diffondere una cultura del contemporaneo, delle sue estetiche, dei suoi processi, impegnandosi nel mantenere viva una connessione con la storia e il contesto regionali. Si tratta di un panorama di storie e prospettive differenti: un’ossatura solida e talvolta poco visibile che garantisce spazi indispensabili per l’arte, garantendo l’indispensabile verifica della mostra, sostenendo ricerche e lavorando faticosamente alla compilazione di archivi e cataloghi completi.
Jacques Rancière, Le Maître ignorant, Fayard, Parigi 1987 (tr. it. Il maestro ignorante, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2008).