Lara Favaretto – Sucking mud
La Galleria Franco Noero è lieta di presentare una nuova mostra personale di Lara Favaretto, per la prima volta ospitata negli spazi di Piazza Carignano 2 a Torino.
Comunicato stampa
La Galleria Franco Noero è lieta di presentare una nuova mostra personale di Lara Favaretto, per la prima volta ospitata negli spazi di Piazza Carignano 2 a Torino.
SUCKING MUD è il titolo di una poesia di John Giorno, parole che, isolate dall’originale contesto, suggeriscono l’idea del prosciugare, dell’eliminare il fango molle e superfluo per raggiungere quanto di più solido, compatto e permanente vi si possa trovare al di sotto. Un processo di sottrazione portato alle sue estreme conseguenze, un’azione volta ad arrivare all’essenziale per metterlo a nudo, a raggiungere uno stadio in cui la materia non è ancora diventata “cosa”. Nell’esposizione, ogni dato narrativo o indizio figurativo è rimosso dai materiali, che si mostrano nella loro propria, inerme e schietta, presenza. La stringente economia di mezzi espressivi, l’asciuttezza e l’oggettività dei lavori sono assimilabili a una semplice cernita di materiali, mai declinati in oggetti, riprodotti su un catalogo o esposti in un luogo deputato.
L’apparizione in una galleria d’arte di materiali sollecitati a esprimere, in maniera quanto più possibile mimetica, nient’altro che le loro qualità intrinseche, prive di ogni aggettivazione, genera immediatamente un equivoco.
Tubi metallici di recupero, usurati per il loro precedente utilizzo, tracciano una griglia al di sopra delle teste dei visitatori all’interno della prima sequenza di stanze della galleria. Suggeriscono una trama, un ordine sospeso e interrotto che sovrasta e definisce un rapporto proporzionale, un livello di relazione ulteriore che si aggiunge al rapporto tra la figura umana e le qualità volumetriche e architettoniche del luogo in cui si trova. La presenza nei tubi di fili di lana dei tre colori primari – blu, rosso, giallo – cita e sovrappone allo spazio esistente la geometria serrata e stringente di un quadro di Piet Mondrian.
Nella stanza a specchi che si affaccia su Piazza Carignano, un’ampia pedana ricoperta di lamiera zigrinata si incunea quasi per intero al suo interno e si afferma come nuovo orizzonte, elevato dal suolo esistente. Essa crea uno spazio a sé stante, sospeso tra la griglia aerea disegnata dai tubi e il pavimento, permettendo al visitatore di confrontarsi con il moltiplicarsi della propria immagine, restituita dal metallo in orizzontale della pedana e riflessa, sebbene non in maniera nitida, negli antichi specchi alle pareti. I passi sulla lamiera generano un rumore familiare, che riconduce alle strutture temporanee degli autoscontri nel luna park.
Con l’intervento su sei dipinti trovati, di ampio formato, il tradizionale incontro visivo con l’opera d’arte è messo in discussione. Imbozzolate con fili di lana di diverso spessore e di colore verde, le tele dipinte da altri e scelte dall’artista sono nascoste alla vista e trasformate in monocromi di alta qualità tattile e oggettuale, un campionario di verdi, una riduzione al minimo delle sue sfumature.
Di nuovo ci si sposta di piano e, sul pavimento della stanza d’angolo, appaiono sublimate quelle che sono le tracce tangibili di un deterioramento, i solchi e i buchi dei tarli scavati nel parquet, riempiti con un materiale di valore, l’oro, che porta alla luce, in maniera sommessa e apparentemente noncurante, un prezioso ordito su cui si continua a camminare.
Una placca d’argento massiccio smaltata a lettere blu Savoia appare a seguire come un gentile e perentorio invito a fare un’offerta, inserendo monete all’interno di una fessura ritagliata su di essa: un gesto che, dato il luogo e le circostanze, resta senza un esito definito o prevedibile, sospeso tra un ipotetico atto di generosità verso la comunità e di contro l’apprezzamento tangibile delle idee espresse dall’opera dell’artista, tramite l’adesione completa alla sua evidente ma ancora una volta equivoca richiesta con l’acquisto dell’opera stessa.
Un altro materiale riflettente, l’ottone, laminato e lasciato crudo, ricopre le superfici esterne del grande volume che occupa l’ultima stanza della galleria, ideale cenotafio dedicato all’artista scomparso Bas Jan Ader. Le lastre sono destinate a mostrare nel tempo l’ineludibile processo di ossidazione e i segni causati dall’esposizione dell’opera in vari luoghi.
Il rumore di lavori in corso, che come un basso continuo accompagna tutta la mostra, proveniente al di là dei muri e delle porte delle stanze, stabilisce tramite il suono l’esistenza di un altrove, di un accadimento differito rispetto al luogo in cui ci si trova, la cui natura resta equivoca e non completamente decifrabile.