Le Grand Verre – Reminisce!
A tre mesi dalla prematura scomparsa del poliedrico artista milanese Matteo Bologna, il collettivo Le Grand Verre, di cui Matteo era fondatore insieme a Marco Pho Grassi e al berlinese Jaybo Monk, presenta la mostra Reminisce!, accompagnata da un testo di Elisabetta Longari.
Comunicato stampa
A tre mesi dalla prematura scomparsa del poliedrico artista milanese Matteo Bologna, il collettivo Le Grand Verre, di cui Matteo era fondatore insieme a Marco Pho Grassi e al berlinese Jaybo Monk, presenta la mostra Reminisce!, accompagnata da un testo di Elisabetta Longari.
Il collettivo dal settembre 2012, anno della sua nascita, stava indagando attraverso l’utilizzo della fotomeccanica i rapporti più intimi tra luce, tempo e materia.
Le opere in mostra presentano anche una serie delle sperimentazioni iniziate da Bologna già nei primi anni novanta, tra cui Composizione 0 del 2013, sequenza di 40 diapositive elaborate attraverso l’utilizzo di materiali differenti che, una volta proiettati, svelano il loro microcosmo nascosto.
Insieme ai lavori che hanno caratterizzato la prima fase de Le Grand Verre verranno presentate opere più recenti del collettivo, come gli allevamenti di ruggine su carta 100% cotone di Marco Pho Grassi e le piccole sculture di Jaybo Monk sul tema dell’assenza e dell’impossibilità.
Lungo il percorso della mostra, Alberto Caffarelli, membro del collettivo artistico Alterazioni Video, riproporrà "Hola, mi nombre es Bolo" suo intervento urbano, omaggio a Matteo Bologna.
Oltre alle opere esposte in galleria, sarà possibile visitare l’adiacente atelier di Pho, luogo che ha dato origine al collettivo e che, per l’occasione, si trasformerà in una grande camera oscura dove le strumentazioni artigianali e gli attrezzi dialogheranno con proiezioni e installazioni multimediali, in un ambiente sonoro creato dal DJ e compositore Nic Sarno.
In questo luogo verrà anche ospitata un'elaborazione visiva sviluppata dal regista Stefano Obino, ispirata ad alcuni elementi primordiali da cui Le Grand Verre ha iniziato il suo percorso.
L'intero ricavato della mostrasarà donato al fondo a sostegno delle tre figlie di Matteo, creato e gestito da sua madre Lucia.
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Un racconto
di Elisabetta Longari
Premessa
Com’è noto, Le Grand Verre è il titolo alternativo con cui si nomina correntemente una delle opere cardinali di Marcel Duchamp: La Mariée mise a Nu par ses célibataires, même (1915-23). Polimaterica, composta di due pannelli di vetro dentro ai quali galleggiano elementi di diversa natura quali fili e lamine di piombo, vernici e pittura ad olio, è un campo magnetico di cui il caso ha decretato il compimento; questa complessa macchina per lo sguardo era rimasta infatti, secondo l’artista, in uno stato di incompiutezza nel suo studio per un certo periodo di tempo e solo con il verificarsi di un incidente fortuito come la rottura del vetro, Duchamp finalmente si è risolto a dichiarala terminata. L’interpretazione della scena con forme meccanomorfe in sospensione data da Arturo Schwarz è decisamente orientata in chiave alchemica.
Le Grand Verre costituisce anche il paesaggio misterioso che figura sepolto da uno strato di polvere nell’opera fotografica Élevage de poussière (1920), riconosciuta tanto da Man Ray quanto da Duchamp come opera di ciascuno e, al tempo stesso, a due mani, tanto è vero che si conoscono esemplari firmati da entrambi gli artisti come da soltanto uno di loro.
Teniamo a mente questi aspetti: la trasmutazione della materia, la casualità, l’indifferenza verso l’attribuzione e l’autorialità del singolo individuo.
Cronistoria
Le Grand Verre è anche il nome di un collettivo che, nato dalla collaborazione di Marco Grassi alias Pho con il fotografo e videomaker Matteo Bologna, si presenta per la prima volta al pubblico nel 2014 a Berlino alla Cicle Culture Gallery in occasione della mostra d’inaugurazione del nuovo spazio. Il collettivo esponeva due grandi rayografie e Composizione 0 del 2013, una sequenza di 40 diapositive elaborate attraverso l’utilizzo di materiali differenti che, una volta proiettati, svelano il loro microcosmo nascosto.
Il 30 Maggio 2015 rappresenta un ulteriore tappa del percorso del collettivo a cui nel fratempo si è unito l’artista berlinese Jaybo Monk; lo studio di Marco Grassi in via Tertulliano 70 si apre al pubblico trasformandosi in una grande camera oscura dove gli attrezzi, i materiali e le strumentazioni artigianali dialogavano con rayografie su carta, proiezioni di diapositive, installazioni di oggetti trovati e riassemblati in un gioco di chiaro sapore neodadaista. Accanto a Composizione 0 e a diverse opere che documentano il procedimento tecnico attraverso vari stati delle rayografie, Jaybo esponeva i suoi assemblage, nati dall’utilizzo e dalla combinazione di oggetti trovati, tra cui figurano con insistenza nastri di magnetofoni e fotografie, lenti ottiche e frammenti di tecnologie obsolete, per lo più strumenti atti alla visione e supporti legati alla duplicazione del suono e dell’immagine.
Per via della penombra in cui era immerso l’ambiente, al visitatore sembrava di entrare nel backstage dell’atto creativo, di introdursi nel meccanismo oscuro di formazione delle immagini.
Ma facciamo un passo indietro e vediamo come e quando si è venuta a costituire questa squadra di lavoro.
Matteo e Marco, che si sono conosciuti al Liceo Artistico Santa Marta nei primi anni novanta e hanno condiviso anche l’esperienza dei graffiti in strada con una delle crew storiche milanesi (16K), sono approdati a una collaborazione più assidua quando Matteo è tornato dal Brasile nel 2011. Ciò è avvenuto sulla base di un interesse comune per la provocazione dei materiali e per la contaminazione degli ambiti espressivi. Marco, diplomatosi nel 2001 in pittura all’Accademia di Brera con Luciano Fabro, aveva nel frattempo sviluppato un linguaggio pittorico complesso, basato su una gestualità astratta e piena che si avvaleva anche dell’aggregazione di diversi materiali trovati per strada, mentre Matteo, che si era diplomato alla Civica Scuola di Cinema di Milano nel 1999, forzava i limiti espressivi dei linguaggi audiovisivi con diverse sperimentazioni, attento agli sviluppi introdotti dalla casualità.
A loro si è unito in un secondo tempo Jaybo Monk, conosciuto a Berlino, e tale avvicinamento si è svolto nel segno della condivisione di uno spirito di ricerca volto all’estrazione della meraviglia dagli aspetti più prosaici del quotidiano e che si nutre frequentemente dell’energia dell’errore.
Il 12 Novembre 2015, sempre nello studio di via Tertulliano e anche nella adiacente Galleria Avantgarden, Marco e Jaybo, senza Matteo che nel frattempo è mancato, dedicano all’amico scomparso un secondo tempo espositivo comune, in cui vengono presentati lavori che avevano in gestazione assieme e/o singolarmente.
Matteo ha contribuito inconsapevolmente alla realizzazione di un pezzo: Stop Bath: una vasca di fissaggio che lui avrebbe dovuto, d’accordo con Marco, svuotare dall’acido e pulire. Il suo gesto mancato ha prodotto una reazione chimica che ha dato vita a una geografia molto interessante, a un cielo ricco di galassie formate da cristalli salini. Fatta di affioramenti ed effiorescenze, la vasca è un’opera concettualmente vicina alla serie Breeding of Rust in cui Marco ha provocato su rayografie e immagini trovate una crescita virale di ruggine.
Jaybo, oltre ai suoi piccoli totem, espone una serie di fotografie recuperate, lacerate, stracciate e ricucite in modo irregolare in prossimità della figura umana che, a causa di questo trattamento, acquisisce un carattere mostruoso inquietante e instabile, perfino doloroso, simile a quello presente in uguale misura in qualsiasi variante di La Poupée di Hans Bellmer.
Accanto alla presentazione di alcune opere del nucleo storico del collettivo Le Grand Verre, questa occasione coagula anche gli interventi di altri amici con cui Matteo ha collaborato: Alberto Caffarelli del collettivo Alterazioni Video, che espone tra l’altro la riedizione di un suo intervento urbano che consisteva nell’affissione di poster con un ritratto di Matteo (Hola, mi nombre es Bolo , 2003); mentre il regista Stefano Obino si è appropriato di alcune sperimentazioni materiche che Matteo aveva realizzato nei primi anni novanta inserendo all’interno dei telai delle diapositive oggetti concreti con esiti sorprendenti; queste diapositive sono da Stefano utilizzate in un lavoro di reinterpretazione multimediale (REM. dell’uomo-falena e altri mondi, 2015).
Lo studio di via Tertulliano, teatro del nuovo montaggio di materiali, si avvale di un altro fattore che contribuisce ulteriormente a creare una situazione immersiva di grande suggestione: le opere scintillano nell’oscurità di un ambiente anche sonoro creato dal DJ e compositore Nic Sarno apposta per questo momento espositivo.
E la storia continua… anche se nulla resta uguale.