Leggere l’arte. Biografie d’artista – Marina Abramović
Johan & Levi Editore in collaborazione con il Circolo dei Lettori di Torino annuncia la serata conclusiva del ciclo dedicato alle biografie di grandi artiste donne. Questo incontro propone una approfondita lettura della vita privata e dell’arte di Marina Abramović, la “nonna” della performing art, alla quale James Westcott ha dedicato una biografia autorizzata dall’artista stessa, pubblicata da Johan & Levi. Ne parlano Guido Curto e Igor Principe.
Comunicato stampa
Johan & Levi Editore in collaborazione con il Circolo dei Lettori di Torino annuncia la serata conclusiva del ciclo dedicato alle biografie di grandi artiste donne. Questo incontro propone una approfondita lettura della vita privata e dell'arte di Marina Abramović, la "nonna" della performing art, alla quale James Westcott ha dedicato una biografia autorizzata dall'artista stessa, pubblicata da Johan & Levi. Ne parlano Guido Curto e Igor Principe.
Dall’infanzia e giovinezza nella Jugoslavia di Tito, dove Marina, allevata dalla nonna e in balia di un ambiente familiare freddo e in continua tensione, vive i contrasti interni alla famiglia e alla società, al suo successo internazionale e alla stabilità con l’ultimo marito, si percorre una vita intensa contrassegnata dalla propensione alla scenicità, presente in lei fin da bambina.
Il sangue e il corpo sono la cifra di tutta la sua esistenza e diventeranno materia di perfomance intense, dolorose e coinvolgenti. Il sanguinamento compare nei primi anni di vita come manifestazione di un disagio emotivo nei rapporti familiari e rimarrà successivamente un suo “mezzo di comunicazione”, mentre la conoscenza del proprio corpo (assente in età infantile, tanto che una domestica le spiega il motivo del menarca che la coglie impreparata) sarà la molla che la spingerà a testarne costantemente i limiti.
Se negli anni all’Accademia d’arte di Belgrado Marina si dedica con interesse alla pittura, presto comprende che il miglior strumento per esprimersi artisticamente è il proprio corpo; nascono quindi le performance, per il cui sviluppo è fondamentale il rapporto con l’artista tedesco Ulay, suo partner nella vita e in scena per dodici anni. Con il crescere della sua arte e della sua notorietà le azioni divengono sempre più estenuanti ed estreme (a Napoli nel 1975, il pubblico presente in galleria può utilizzare liberamente contro una Marina immobile una serie di oggetti, tra i quali una pistola carica, che qualcuno le punterà effettivamente al collo), in una continua fusione tra vita e arte, verità e finzione, come in una dimensione parallela in cui Arte è Vita: chi rischia nell’arte rischia nella vita.
Quando il legame con Ulay termina, Marina prosegue da solista, lanciata verso la fama mondiale fino al Leone d’oro alla carriera; le performance crescono ancora in intensità e spostano il baricentro nel rapporto con il pubblico che diventa, come nelle più recenti esperienze, l’elemento con cui l’artista si confronta.
La vittoria per la Abramović, che arriverà solo con la maturità artistica e personale, consiste nell’aver guidato il proprio corpo a essere visto, notato e osservato nella sua matericità concreta e nel suo veicolarsi come significante per altri contenuti. Padrona di quel corpo, l’artista può permettersi di pensare alla morte corporea e inscenarne le suggestioni, come nel testamento da lei stessa dettato.