L’esprit de l’escalier
La mostra L’esprit de l’escalier desidera dare spazio e tempo a quelle opere che per qualche motivo e in qualche misura sono rimaste interdette nell’esecuzione, nella produzione o nell’esposizione.
Comunicato stampa
Non sempre il fare artistico porta a soluzioni positive, non sempre soluzioni positive portano a esiti propizi. Si pensa, erroneamente, che la fecondità dell'oggetto sia qualità squisitamente legata al valore intrinseco dell'opera, come una presenza quiescente ma inequivocabile, strettamente connessa con la vis creativa. Nel lavoro quotidiano ogni artista sa, però, che la realtà è ben diversa. Nel corso della mia esperienza curatoriale ho potuto constatare quanto numerosissime variabili, spesso assai prosaiche e apparentemente insignificanti, condizionino in modo irrimediabile il destino di un manufatto artistico e la sua fortuna o sfortuna curricolare. È cosa nota che grandi lavori, ricchi di emozione e di contenuto, abbiano avuto una storia travagliata e affatto a lieto fine andando distrutti, dispersi, essendo vilipesi, incompresi. Viceversa opere considerate dallo stesso artista di modesto valore posso aver incontrato grande successo economico e popolare.
La mostra L'esprit de l'escalier desidera dare spazio e tempo a quelle opere che per qualche motivo e in qualche misura sono rimaste interdette nell'esecuzione, nella produzione o nell'esposizione.
Il titolo è una locuzione francese coniata da Diderot che suggerisce quella sensazione di assenza di tempestività che si prova quando, in seguito alla provocazione di qualcuno, si resta senza parole. La risposta giusta arriva, eccome, ed è anche elaborata con grande sagacia, però, ahimè, scaturisce troppo tardi, quando ormai si è già "per le scale", intenti a uscire di scena. «L'homme sensible, comme moi, tout entier à ce qu'on lui objecte, perd la tête et ne se retrouve qu'au bas de l'escalier» (un uomo sensibile quanto me, colpito dall'argomentazione data a suo sfavore, perde la testa e non la ritrova che in fondo alle scale).
Ho voluto immaginare l'accogliente Dimora Artica come un nido ridondante di lavori che raccontino un'esecuzione in qualche misura faticosa, che esprima dunque una produzione assimilabile ad un “coito interrotto artistico”. Ogni artista invitato a partecipare presenta un unico lavoro che rispecchia questa sensazione di non finito, un'opera che esprime una creazione acerba, un'esperienza interrotta, un tentativo fallito, il riflesso di una vittoria mai cantata. L'intento non è quello di un crepuscolare elogio del fallimento fine a se stesso, bensì una consapevole presa di coscienza e un'esaltazione del fare artistico in quanto azione sempre positiva e non per forza sempre feconda, la cui qualità e il cui significato restano scevri da ogni suo destino.