L’eterno ritorno
La mostra, che trae il titolo da un concetto fondamentale della filosofia nietzschiana, nasce dal dialogo tra artisti della galleria (Baricchi, Ferri, Moscariello, Pellegrini) e nuove proposte (Cremonini, Gori), uniti in un progetto curatoriale.
Comunicato stampa
L’eterno ritorno
di Niccolò Bonechi
Quale è il ruolo dell’artista nell’attuale società? Come si rende possibile la sua esistenza dentro e fuori il regolare scorrere del tempo?
Queste in sostanza le riflessioni che questa esposizione vuole attivare, considerazioni sulla centralità dell’artista in un scenario storico non finito, a partire da concezioni filosofiche moderne e ben delineate. In modo particolare è presa in considerazione la filosofia nietzschiana, soprattutto per quanto riguarda alcune figure fondamentali, in primis quella dell’Oltreuomo.
Ugualmente il titolo della mostra prende spunto da un concetto che rappresenta uno dei capisaldi del pensiero di Nietzsche (e che si ritrova lungo tutto il suo percorso di studi) che conduce al superamento di quelle barriere socio-culturali che bloccano l’uomo nella condizione di spettatore della propria vita, spingendolo a guardare oltre, abbandonando ciò che è stato immerso in un vissuto quanto mai incalzante. Intrappolato in un movimento apparente che muove tra passato, presente e futuro, l’uomo si ritrova come bloccato in una condizione atemporale dettata dal proprio percorso vitale, dal proprio substrato psichico, che neutralizza ogni possibilità di progresso o trasformazione. Queste premesse conducono Nietzsche a dettare due possibili direzioni, tuttora attuali: abbandonarsi ad un’esistenza apatica, condotta secondo schemi razionali e codici storicamente autoimposti, inibendo di fatto ogni impulso vitale; oppure rompere con il passato e quindi con il circolo perpetuo che vizia il destino dell’uomo, distruggendo ogni possibilità di un “eterno ritorno” e aprendo così ad un nuovo tempo rettilineo, proiettato verso l’infinito liquido e mutevole.
Quest’ultima condizione è propria dell’Oltreuomo che si pone di fronte all’ipocrisia della società, superandola attraverso l’affermazione delle passioni e delle proprie pulsioni. Allo stesso modo l’artista, distruggendo le catene della moralità, si pone come figura super partes, evocatrice e conduttrice di nuove possibilità.
Per questa mostra sono stati selezionati sei artisti, ognuno dei quali guarda al proprio tempo, si relaziona con esso secondo precise coordinate, ne fa strumento per misurarsi all’interno di un processo sociologico e culturale in continuo fermento.
Rudy Cremonini e Federico Gori espongono per la prima volta presso la Galleria Bonioni pertanto, in condivisione con le scelte curatoriali, si confrontano con la tematica dell’eterno ritorno attraverso alcune opere realizzate appositamente per l’occasione, pur mantenendo una riscontrabile coerenza con la propria ricerca formale e concettuale.
Cremonini presenta tre opere su tela, una raffigura l’evidente sagoma di un uomo (Senza titolo), mentre le altre due farfalle immobilizzate in un volo infinito (You are my sister 1-2) accolto all’interno della teca che le conserva. Segno di trasformazione e rinascita, la farfalla simboleggia una mistica compenetrazione tra mondo visibile e l’invisibile, il punto d’incontro tra la compiutezza del nostro tempo e l’eternità. Così facendo Cremonini si pone di fronte al concept della mostra attraverso uno sguardo duplice: se da un lato contempla l’esistenza di un soggetto (la farfalla) che “congelato” su di una tela, nonché conservato in una teca, si fa oggetto e quindi allegoria di un perpetuarsi senza fine; dall’altro costruisce un universo di eterno rimandi tra testo e contesto, laddove la figura, seppur perdendosi nella neutralità del fondale, non smarrisce la sua consistenza vitale: la densità magmatica di cui è composta rompe la monotonia, mostra tutta la complessità segnica dal quale sorge, offrendosi così ad una infinita interpretazione.
In linea con la sua attuale ricerca, Federico Gori presenta opere che hanno nell’elemento naturale il soggetto prediletto. C’è una sorta di incanto circolare nei suoi lavori, laddove lo strumento che viene utilizzato è al tempo stesso il soggetto della rappresentazione: la natura, nei suoi elementi più semplici (la foglia, il filo d’erba, il ramo), si mostra in tutta la sua purezza e semplicità, bloccata in un’apparente fermo immagine.
Gori sembra cadere nella trappola di un’operazione di semplice riproduzione della realtà, che implica una considerazione non lineare dello scandire del tempo. Ma la tecnica utilizzata in questi lavori, quella dell’ossidazione naturale su sottili lastre si rame, permette un fissaggio dell’immagine che non potrà mai essere definito risolutivo, proprio perché questo processo chimico conferisce al supporto la capacità di “subire” ed “assorbire” un’identità altra, ovvero di rendersi testimonianza di qualcosa che c’è stato e che rimarrà indelebile nella sua continua mutevolezza.
Anche per la comprensione della ricerca pittorica di Simone Pellegrini risulta fondamentale approfondire lo studio della tecnica, perché evidenzia la necessità dell’artista di concepire l’opera a più livelli. Di fatto quello che vediamo esposto non è altro che il risultato finale di un lungo percorso di lettura, di studio, di raccolta di materiale. La genesi di ogni opera di Pellegrini avviene a partire dalla realizzazione di numerose “matrici”, frammenti di carta sul quale si registra l’intervento diretto dell’artista, e che hanno un circoscritto ciclo vitale: queste vengono realizzate, accumulate e, una volta trasferite sul definitivo “supporto” cartaceo, gettate via. Così facendo si crea un cortocircuito temporale tra il particolare della matrice e l’universale dell’opera, dove il primo esaurisce la sua spinta propulsiva nel momento in cui dona al secondo l’eternità dell’esistenza.
Sulla superficie le opere di Pellegrini accolgono complesse composizioni (talvolta ricordano iconografie tipiche delle culture orientali) che si sviluppano secondo un ordine apparentemente caotico, dominato da figure misteriose appartenenti ad un era geologica lontanissima. Queste sagome antropomorfe che popolano il campo visivo si organizzano in immaginifici labirinti dove lo sviluppo temporale appare circolare. Andando oltre, scavando verso la profondità d’animo dell’artista, è facile intuire quale sia la vera natura di questi elementi in continua metamorfosi, in una infinita ricerca di stabilità tra riconoscibile ed ignoto.
Quello che si palesa nelle opere di Mirko Baricchi è il risultato del possibile dialogo tra due dimensioni solitamente divergenti, quella fantastica del sogno e quella rigida della razionalità. Alla stessa maniera nei suoi lavori si percepisce un armonico bilanciamento tra disegno e pittura, come se l’artista volesse evidenziare che dentro ogni uomo coesistano due realtà distinte: un subconscio infantile che non è in grado di trattenere le emozioni e che si manifesta nell’espressività libera del disegno; una coscienza di sé che non può prescindere dalle responsabilità imposte dalla società e che viene raccontata attraverso le regole della pittura.
La dimensione del sogno e della razionalità, così come quella del disegno e della pittura, risiedono in due differenti condizioni temporali. Per questa ragione Baricchi, nel tentativo di raggiungere l’armonia della composizione, le fonde in un’alchemica combinazione che dona all’opera una sensazione di sospensione della memoria.
Appena conclusa con grandi consensi la prima mostra personale alla Galleria Bonioni, Luca Moscariello è presente in questa occasione con un’opera inedita che segna una ferma continuità stilistica con il ciclo di lavori precedentemente esposto. Quest’opera, come tutte le altre, è realizzata su tavola ed ha il privilegio di suscitare nello spettatore una sensazione di straniamento, di totale perdita di punti di riferimento temporali e spaziali: il chaos che si palesa sulla superficie invita ad andare più a fondo, a non limitarsi ad una prima frettolosa lettura. L’artista invita a liberarsi dal velo di Maya che blocca l’uomo in uno stato di perenne illusione, una condizione di separazione dalla realtà che impedisce di raggiungere quella liberazione dalle catene della moralità tanto ricercata.
Attraverso un’elegante armonia compositiva, Moscariello costruisce un complesso universo dove elementi della quotidianità si ammassano l’un l’altro in una costruzione piramidale che volge verso l’infinito. Qui il tempo è azzerato, la scena è immobilizzata in un attimo che dura in eterno.
Marco Ferri è un artista che si confronta costantemente con l’essenza della materia, ne è profondamente attratto e per questa ragione non può fare a meno di studiarne ogni sua possibile metamorfosi. Pittura, scultura e, in alcune recenti esperienze, fotografia danno vita a strutture volumetriche e dinamiche che nascono con la precisa vocazione di allentare l’impatto visivo con esse. Questa costante ricerca della leggerezza conduce a considerare le esperienze di Calder e Melotti (soprattutto per il medesimo utilizzo del filo di ferro), anche se è evidente - e comprensibile - che Ferri muove da pulsioni completamente divergerti. L’artista, per quanto avvolto da una forte libertà espressiva, sembra seguire uno schema geometrico, talvolta modulare, che inquadra il senso del lavoro secondo una partitura fissa, dettata dal regolare scorrere del tempo.
Sulla superficie dell’opera, anche quando il colore ne ravviva l’apparenza, è sempre ben visibile una crepa o un piccolo incavo. Questo ci ricorda quanto le esperienze passate stiano lì a ricordarci chi siamo e da dove veniamo, ma soprattutto da quali impulsi sia fondamentale ripartire puntando lo sguardo verso un futuro tanto incerto quanto necessario.