Liliana Cecchin – Tempus fugit

Informazioni Evento

Luogo
MUSEO ARCHEOLOGICO DEL FINALE
Strada Provinciale Finalborgo Orco Feglino , Finale Ligure, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

mart-dom 15-20

Vernissage
03/11/2012
Artisti
Liliana Cecchin
Generi
arte contemporanea, personale

Nei lavori piu’ recenti il movimento si esplicita in una vibrazione che confonde i contorni in una rielaborazione, in chiave postmoderna, delle intuizioni di Balla e Boccioni.

Comunicato stampa

Quando, ormai un po’ di anni fa, ho conosciuto il lavoro di Liliana Cecchin sono rimasta colpita da quanto profondamente i suoi scorci metropolitani affondassero dentro di me. Quella piccola folla anonima che si affrettava verso un punto invisibile fuori dalla tela, quei corpi che si urtavano senza vedersi, ignari gli uni degli altri, facevano parte del mio vissuto in una maniera quasi primordiale. E non solo perché io, milanese doc, sono stata svezzata a pane e metropolitana, trascinata per mano mille volte, anch’io, da un adulto frettoloso da qualche parte che nemmeno ricordo; piccola, persa in una folla grigia e uniforme tanto più grande di me, folla di cui mi saltavano agli occhi proprio le gambe, i piedi, le borse oscillanti. Non solo. Ma anche perché la consapevolezza di questo mondo che corre fa parte oramai di tutti noi che viviamo in questo scorcio di inizio millennio. Sia che abitiamo in una metropoli, sia che viviamo in un piccolo paese, ma che alla metropoli, volenti o nolenti, siamo costretti a fare riferimento, calamita imprescindibile e ipnotico polo d’attrazione.

Ecco, il lavoro di Liliana Cecchin parla proprio di quel tempo che non esiste, il tempo non vissuto che trascorre tra il partire e l’arrivare. Non il tempo autentico di chi siede in treno accanto al finestrino e osserva il paesaggio scorrere in sintonia con il flusso dei propri pensieri, e nemmeno quello di chi sale in auto, accende l’autoradio e lascia che la strada lo accolga, che il viaggio lo faccia suo. Quello di Liliana è il tempo che si vorrebbe cancellare con un colpo di spugna, escludere da una vita in cui l’attesa (di una lettera, di una telefonata, di quel documento di cui abbiamo bisogno) è stata azzerata da tablet, mail, cellulari, scansioni, skype, facebook, twitter. È il tempo nullo dello spostamento obbligato, troppo breve e caotico, gremito di troppe intrusioni, perché il cervello possa aprirsi al pensiero, volare ad altro. È un tempo contratto in se stesso, passato a contare stazioni e a scrutare l’orologio. Tempo fermo e crudele in cui ogni uomo è una monade, ignaro e disinteressato a ciò che gli succede accanto. La folla che Liliana fotografa, e di cui poi coglie l’essenza sulla tela, va così veloce da lasciare vuoti enormi, spazi che l’artista colma di una luce così vivida da farsi abbagliante. Questa elegantissima scansione degli spazi del quadro è un’altra delle caratteristiche dei lavori di Liliana che mi hanno subito incantato. Perché quel vuoto lì è solo un vuoto apparente, come apparente è il senso di comunità e di insieme di tutte quelle persone che corrono. Quel vuoto catalizza lo sguardo proprio per la sua insondabile profondità, sia esso pura luce o l’attenta riproduzione di una pavimentazione stradale. E il vuoto non è solo creato dalla fuga periferica dei soggetti ma anche, spesso, dalla scelta di abbassare repentinamente l’inquadratura, riducendo i personaggi alle sole gambe e relegandoli a una parte esigua nella zona più alta della tela.Ecco allora che la sensazione dello spettatore è quasi quella di un capogiro, di uno smarrimento, di stare inseguendo qualcosa che non si raggiungerà mai.

Sensazione enfatizzata dal fatto che molto spesso i personaggi ritratti dall’artista ci mostrano le spalle, troppo frettolosi e distratti per scambiare uno sguardo di comunicazione, non solo tra loro, ma anche con noi. Fedele alla scelta dei luoghi in cui ambientare la scena (stazioni di metropolitana, famose vie dello shopping, a volte riconoscibili solo per un minimo dettaglio o per la pavimentazione, o magari soltanto per il titolo), l’artista in questi anni ha visto il suo stile evolvere e maturare nella direzione di una pittura più dinamica, capace di arrestare l’istante di quel tempo gelido e inesistente e regalargli la vita del movimento. Se i primi lavori rivelano una costruzione delle figure per massicce campiture di colore, vivide e dalle potenti volumetrie, man mano il gioco va facendosi più sottile e suadente, con la composizione dei volumi condotta per zone di luce e di ombra, i visi che si fanno sempre più vaghi e un’intenzionalità più esplicita nel dare alla folla quella connotazione di alienazione, incomunicabilità, anonimità. Poi, in un ulteriore passaggio, i colori vanno riducendosi sempre di più, la tavolozza si concentra sui toni dei grigi e dei polvere, degli azzurri, dei bruni, in un continuo tendere alla monocromia improvvisamente alzato dalla scelta di accendere un punto di colore (un sacchetto rosso lacca, una borsa gialla) che diventa il fulcro della scena. Ora la sfida – pienamente vinta – è quella del movimento. Nei lavori più recenti, ammantati di grazia e tuttavia carichi di una potenza dirompente, il movimento si esplicita in una vibrazione che confonde i contorni, sdoppia la gamba lanciata nel passo, inventa oscillazioni e riflessi in una rielaborazione, in chiave postmoderna, delle intuizioni di Balla e Boccioni. Mentre negli ultimissimi lavori il movimento, sempre più fluido, quasi acquatico, sembra perdere i connotati di realtà. I corpi trasparenti, ectoplasmatici, si sovrappongono, si intrecciano l’uno con l’altro, appaiono come privi di consistenza, di sostanza, in una danza oramai quasi astratta. Meritano una citazione i ritratti, genere a cui Liliana Cecchin si dedica con una fedeltà attenta e amorosa. In quei primi piani fermi e precisi, la sensazione del tempo che fugge è colta con una consapevolezza serena, spavalda. La bambina guardinga e cauta, la giovane donna che fissa decisa lo spettatore e l’altra donna, meno giovane, che nasconde un sorriso segreto dietro quel viso luminoso e splendidamente segnato dagli anni, parlano di un tempo vissuto e colmato. Di un tempo autentico. Che fugge, sì, ma senza troppi rimpianti.
Alessandra Redaelli