Louise Nevelson
A distanza di 43 anni dalla prima esposizione di Louise Nevelson a Milano, la Fondazione Marconi presenta nella sua sede un nucleo di circa 70 opere, tra sculture e collages, datate a partire dal 1955 fino agli ultimi anni Ottanta.
Comunicato stampa
“Ho sempre pensato che la bidimensionalità, la superficie
piana di un dipinto, fosse superiore alla scultura…
La scultura, invece, è fisicamente più comprensibile.
La scultura ha sempre quattro lati, quattro realtà per l’appunto.”
(Louise Nevelson, Atmospheres and Environments, New York 1980)
Louise Nevelson
Inaugurazione: 12 maggio 2016 dalle ore 18,00
dal 13 maggio al 22 luglio 2016
A distanza di 43 anni dalla prima esposizione di Louise Nevelson a Milano, la Fondazione Marconi presenta nella sua sede un nucleo di circa 70 opere, tra sculture e collages, datate a partire dal 1955 fino agli ultimi anni Ottanta.
Risale al maggio 1973 la prima esposizione dell’artista americana che proprio lo Studio Marconi le dedicò a Milano in un momento in cui era ancora poco nota al pubblico europeo.
Dopo aver visto alcune sue opere in una mostra a Parigi, Giorgio Marconi ebbe occasione di conoscerla personalmente nel 1971, tramite la Pace Gallery di New York, e andò a trovarla nel suo studio-abitazione.
Era un assemblage di opere fatte con avanzi delle ‘cose’ dell’uomo, cassette di Coca-Cola, gambe di tavoli, ritagli di falegnameria, doghe di barili ecc. ecc. Passai una mattinata piena: si parlò di opere, spazi, mostre, viaggi a Milano e un’infinità di argomenti, comprese chiacchiere varie sulla vita...
(Giorgio Marconi, Autobiografia di una galleria, Skira 2004)
Iniziò così un’assidua collaborazione che sarebbe durata qualche anno e avrebbe dato vita a diverse mostre, organizzate in Italia e all’estero.
Affascinata da Marcel Duchamp e da altri capifila del Dada e del surrealismo – “Il surrealismo era nell’arte che respiravo” – affermava ricordando gli anni del suo apprendistato, l’artista subì l’influenza dell’esperienza cubista di Picasso, dell’arte nativa del Nord e Centro America e, in particolar modo, dopo essere stata assistente di Diego Rivera e Frida Khalo, della pittura murale.
Il suo è un linguaggio scultoreo che aderisce immediatamente al muro, mutuando i suoi segni astratti dalla pittura. Monumentalità, monocromia e dislocazione dei piani su una scarsa profondità sono le caratteristiche peculiari dei suoi assemblaggi o “environments”.
Agli oggetti di recupero che compongono le sue sculture astratte, l’artista attribuiva una nuova vita “spirituale”, diversa da quella per la quale erano stati creati, sottoponendoli a un rituale preparatorio quasi a volerli decontaminare dal mondo esterno.
Protagonista del rinnovamento della scultura nel XX secolo e delle sue trasformazioni, Louise Nevelson diceva parlando di sé e del suo lavoro: “Adoro mettere insieme le cose”.
Non si può tuttavia confinare il suo repertorio creativo nella sola categoria dell’assemblaggio.
Figura emblematica dell’arte nel Novecento, Louise Nevelson, si è distinta nel panorama artistico internazionale per la sua ricerca di un linguaggio universale.
Non so se la definizione di scultrice mi si addica. Faccio dei collage. Ricostruisco il mondo smembrato in una nuova armonia.
L’armonia che si respira ad esempio in alcune delle opere in mostra, come nel monumentale Hommage to the Universe, (1968, 900 x 90 cm), autentico esito di una cerimonia scolpita in cui ogni elemento conserva qualcosa della sua vita precedente; in Dawn’s Host (1959) e nella serie End of the Day che documentano la predilezione della Nevelson per l’inizio e la fine del giorno, l’alba e il crepuscolo; oltre che nella selezione di collages, realizzati in varie dimensioni e su supporti lignei o cartacei, a dimostrazione della continua attenzione dell’artista per l’immediatezza d’esecuzione, l’equilibrio della composizione, i piani prospettici e i rapporti cromatici.
Per l’occasione verrà pubblicato un catalogo con un saggio di Bruno Corà, curatore della mostra.
Note Biografiche
Louise Berliawsky nasce nel 1899 a Kiev e nel 1905 si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti. Trascorre l’infanzia a Rockland nel Maine, e manifesta una precoce inclinazione per le arti. Dal 1920, con il marito Charles Nevelson, anche lui russo, originario di Riga e naturalizzato americano, si stabilisce a New York dove studia musica, recitazione e frequenta le gallerie d’avanguardia. Alla fine degli anni Venti segue le lezioni della Art Students League e nel 1931 si reca a Monaco di Baviera per studiare con Hans Hofmann, il quale è però costretto a chiudere la sua scuola entro pochi mesi. Dopo una serie di viaggi in Italia e a Parigi dove visita il Musée de l’Homme, entrando in contatto con l’arte africana e successivamente con il cubismo, Louise Nevelson torna a New York e lavora come assistente di Diego Rivera alla decorazione dell’RCA Building e della New Workers’ School. Nel 1933 apre un proprio studio nel Greenwich Village e inizia a dedicarsi con continuità alla scultura, creando opere di gusto primitivista, realizzate con materiali poveri e naturali. Nel 1935 partecipa alla mostra “Young Sculptors”, allestita al Brooklyn Museum of Art, e negli anni seguenti partecipa a diverse collettive. Nel settembre 1941 riesce ad avere una personale alla Nierendorf Gallery, seguita da un’altra a distanza di un anno. In questa fase entra in contatto con molti protagonisti delle avanguardie europee rifugiatisi in America dopo lo scoppio della II guerra mondiale. Nel 1943, su proposta di Duchamp, la galleria di Peggy Guggenheim Art of This Century organizza una collettiva dedicata alle artiste d’avanguardia, dove la Nevelson espone Column, e dalla metà degli anni Quaranta le sue opere compaiono alla rassegna annuale del Whitney Museum. La sua produzione si caratterizza per la rinuncia al colore e per la scelta di forme astratte dalla geometria severa ed essenziale. Realizza sculture e assemblaggi con materiali di recupero, rigorosamente acromatici, spesso rivestiti di una pittura nera opaca e coprente. Le dimensioni delle sue opere si amplificano negli anni seguenti, con la creazione di grandi contenitori ricolmi di vecchi oggetti e frammenti di legno variamente sagomati e assemblati, ricoperti di pigmento nero, bianco e dorato. Nella seconda metà degli Cinquanta tiene diverse personali alla Grand Central Modern Gallery e i maggiori musei americani iniziano ad acquistare suoi lavori.
Nel 1959 partecipa all’importante rassegna “Sixteen Americans”, con l’installazione Dawn’s Wedding Feast, composta da vari elementi che riempiono le pareti e colonne verticali che simboleggiano al centro il sole e la luna. Nel 1962 espone alla Biennale di Venezia e nel 1964 partecipa a Documenta di Kassel e nel 1967 il Whitney Museum di New York le dedica una prima vasta retrospettiva. Dalla fine degli anni Sessanta ha diverse personali in tutto il mondo e riceve numerosi riconoscimenti. Realizza opere di respiro monumentale, come la cappella del Buon Pastore per la chiesa luterana di St. Peter a New York (1977) e il gruppo scultoreo Sky Gate - New York per il World Trade Center (1978).
In Italia, presenta personalmente nel 1973 una mostra di ottanta opere dal 1955 al 1972 allo Studio Marconi di Milano, con il quale inizia una proficua e durevole collaborazione.
Per i suoi ottant’anni il Whitney Museum organizza una restrospettiva, “Atmospheres and Environments”, con installazioni dal 1955 al 1961, seguita nel 1980 da una mostra itinerante del Phoenix Art Museum, “The Fourth Dimension”. L’artista muore a New York il 17 aprile 1988.
Tra le molte retrospettive dedicate a Louise Nevelson ricordiamo la mostra organizzata dalla Fondazione Roma in collaborazione con la Fondazione Marconi nell’aprile 2013 e quella della Fondazione Puglisi Cosentino del 2014 a Catania, entrambe curate da Bruno Corà, e nello stesso anno la mostra presso la Die Galerie a Francoforte sul Meno.