Luce coatta: dischiusure
Sotto la valenza ossimorica del titolo, Luce coatta: dischiusure sembra riunire opere di artisti distanti come punti cardinali, ma in realtà riposa su una sorta di remota ma comune attitudine che ciascuno di essi spartisce con il Preferirei di no (‘I would prefer not to’) del melvilliano Bartleby.
Comunicato stampa
Sotto la valenza ossimorica del titolo, Luce coatta: dischiusure sembra riunire opere di artisti distanti come punti cardinali, ma in realtà riposa su una sorta di remota ma comune attitudine che ciascuno di essi spartisce con il Preferirei di no ('I would prefer not to') del melvilliano Bartleby. Si tratta della messa in campo di 'negazioni' che vanno però intese ponendo maggior ascolto all'originaria duplicità del gesto che le fonda più che alla loro stessa negatività: negazioni che paradossalmente annunciano piuttosto che interdire o, più precisamente promettono attraverso la loro stessa interdizione.
Invece di esprimere un senso, le opere di Isabel Banal paiono custodirlo, tenerlo in riserva, come il seme -figura centrale della sua poetica- contiene un potenziale frutto a venire. Nella serie Sense Revelar, l’artista tende a svuotare il potere assertivo consunstanziale ad ogni formula espositiva, tramite un gesto che potremmo definire “renitente”, che ritraendosi dona e, contemporaneamente, mette in riserva un vuoto che custodisce una nuova possibilità di sguardo. Deludendo ogni aspettativa, Banal presenta, infatti, al posto delle foto scattate durante ripetute escursioni nel territorio della Garroxta, i semplici rullini che ne testimoniano le tappe: spiazzati da ciò che è “esposto alla svista”, assistiamo ad una spoliazione dell'opera che non si lega però ad alcun intento iconoclasta . Il ritrarsi dell’ immagine diviene, qui, immagine di un ritrarsi che disfa sul nascere ogni tradizionale idea di esposizione; ad essere esposta non è la visibilità di ciò che prima era nascosto ma la sua invisibile potenzialità. La differenza-indifferente di luoghi resi intercambiabili dallo “sguardo turistico” si riverbera sulla quasi-identità di opere che differiscono per varianti minime ed inessenziali (la quantità di rullini esibiti in ogni cornice, i colori e la grafia dei loro marchi, le didascalie “inutilmente” precise): visivamente equiparabili a rullini vergini, i rullini impressionati (ma non sviluppati) di Isabel paiono ricondurci dall’opera al suo non-ancora. Con questo lavoro l'artista non vuol semplicemente comunicarci qualcosa (sulla mercificazione o sulla stereotipizzazione del paesaggio della Garroxta) ma trasformare l’esposizione in una donazione vuota, capace di rimandarci incessantemente dall’assenza-del-paesaggio all’opera e dall’assenza-dell’opera al paesaggio. Accennando in direzione di ciò che appare nella sua stessa cancellazione, la genesi negativa di Sense revelar ci introduce così ad un’idea di presenza che non si oppone radicalmente all’assenza ma sembra costituirne piuttosto la faccia in ombra.
Nell'inedita serie Polaroid, 2014, Paolo Meoni non cattura un frammento di realtà ma l'immagine fotografica nel suo stesso farsi, sigillandola nella sua latenza, mentre in Video #2 (2014) mostra l'evidenza enigmatica di immagini che -immuni da ogni ritocco digitale- paiono custodire una potenza di indeterminazione che si sottrae ad ogni com-prensione. In questo video “il movimento di mostrarsi-nascondersi delle cose” pare aver perso “ogni forza direttrice” e l' opera sembra presupporre la possibilità di un rovesciamento del vedere che si trasforma in fascinazione. L'artista si fa artefice di una immagine che non può essere pensata negativamente rispetto ad uno specifico disciplinare, ma che va colta fino in fondo, affermativamente, nella sua costitutiva ambiguità. Una immagine capace di sospendere ogni logica contrappositiva e di sottrarsi agli aut-aut speculari e contraddittori che pretenderebbero di ipotecarne, in maniera univoca, il futuro; un'immagine che è ostinatamente tesa a ricondurre ogni interpretazione alla fertile ambiguità che la costituisce e la fonda, facendone di volta in volta lo stesso dell'altro e/o l'altro dello stesso; un'immagine che vive di una intrinseca duplicità, anche quando, come in questo caso, non riposa su un intervento elettronico direttamente inscritto in essa; un'immagine, infine, che si manifesta sempre al secondo grado, perché non scaturisce dalla cattura ma da un lavoro di restituzione di una immagine preesistente. É questa fertile con-fusione tra due diversi regimi (immagine della realtà e realtà dell'immagine) a dissolvere ostinatamente ogni possibilità di interpretazione univoca delle opere dell'artista.
Antonio Catelani presenta alcuni quadri dal titolo Abwesenheiten in preuβisch blau (Assenze in Blu di Prussia), recenti stazioni del più vasto ciclo Assenze, iniziato a Berlino nel 2008, esempi di una meta-pittura soggetta alla legge di gravità che tende ad oggettivarsi al punto da sopprimere, attraverso una funzione metonimica, la distinzione tra materia e immagine. Quadri ad olio su tela, che sembrano indicare la centratura dell'opera in un preciso ambito disciplinare... ma in cui si nota un sostanziale slittamento di campo reso possibile dall'impiego di una tecnica mutuata dalla stampa.
La stesura del colore per mezzo di un telaio serigrafico conduce, infatti, alla spersonalizzazione del gesto e alla scomparsa della texture. Si tratta di opere che indicano una sostanziale svolta verso il monocromo che l'artista riconfigura sul precario confine tra immagine e oggettivazione del piano. Qui la verifica del piano fisico-pittorico, è spinta sino all'atto del toccare la superficie dipinta, atto che sposta istantaneamente l'attenzione dalla sfera visiva a quella tattile. I 'monocromi' blu dell'artista fissano dunque con incisività l'assenza, la traccia inconsistente e in negativo di un atto dubitativo.
Inaugurando un territorio del forse, che resiste ad ogni tentativo di sintesi, i lavori di Catelani, Meoni e Banal, aprono chiudendo e chiudono aprendo o, per meglio dire, sospendono, al proprio interno, i concetti di apertura e chiusura, di al di là e al di qua; rinviando a ciò che li deborda, appaiono, contemporaneamente, stessi ed altri, conclusi ed interminabili. Ciò che rende queste opere possibili è, paradossalmente, ciò che introduce in esse un principio di insaturabilità che ne compromette l’identità a sé e la semplicità. Un impasse apparentemente irrisolvibile, rovesciandosi come un guanto, si trasforma in una chance che permette alle opere di liberarsi della loro purezza. E’ questa, del resto, l’unica possibilità che esse hanno per aprirsi ad un a-venire che non sia già perfettamente prevedibile, alla possibilità di un possibile che la loro realizzazione inveri ma non esaurisca, preservi, anzi, al proprio interno, come la traccia di ciò che le anima e le fa esistere.
* Luce coatta è la traduzione italiana di Lichtzwang , una raccolta di poesie postume, lasciata in forma di manoscritto dal poeta Paul Celan