Luciano Fabro
In mostra nella sede di corso Monforte opere storiche che tornano in esposizione dopo tre decenni: Il giorno mi pesa
sulla notte II del 1994-96, AR del 1990 e Quid nihil nisi minus del 1969.
Comunicato stampa
Galleria Christian Stein presenta la mostra di Luciano Fabro (Torino, 1936 – Milano, 2007) dal 30 maggio 2024. In
mostra nella sede di corso Monforte opere storiche che tornano in esposizione dopo tre decenni: Il giorno mi pesa
sulla notte II del 1994-96, AR del 1990 e Quid nihil nisi minus del 1969.
Arte è quell’attitudine all’interno dei fenomeni naturali sia fisici che spirituali che modifica il processo
aumentandone la definizione; a seguito dell’atto artistico il fenomeno non sarà più definibile come per
l’innanzi.
Luciano Fabro
La prima apparizione di Luciano Fabro alla galleria Stein rimonta al 1967, quando venne invitato in una collettiva
a cui presero parte tra gli altri Boetti, Kounellis, Merz, Paolini, Twombly. L’ultima mostra personale è invece del
1999. Tra queste due date sono state molte le occasioni per ammirare le opere di Fabro negli spazi Stein, sia a
Torino che Milano. Merita qui ricordare la grande retrospettiva del 2015 negli storici spazi della sede centrale di
corso Monforte e nell’ampia sede periferica di Pero. Si tratta dunque di una lunga relazione, di una ribadita
fedeltà, non tanto a spazi, quanto a persone, amici, colleghi, a una certa idea dell’arte e a una certa pratica
artistica. Adesso Gianfranco Benedetti ha deciso di presentare tre opere secche nel ‘salotto buono’ di Corso
Monforte: Quid nihil nisi minus, AR e Il giorno mi pesa sulla notte II. Luciano Fabro ne sarebbe soddisfatto e
felice. I titoli sono sempre stati decisamente importanti nel suo mondo. In questo caso sembrano funzionare tra
loro come in un rebus. Un modo di creare relazioni tra opere e titoli che all’artista piaceva molto. Fabro amava
mettere lo spettatore nelle condizioni di far uso di immaginazione, di fare collegamenti tra immagini e parole. Era
il suo modo di fare dell’ironia uno strumento dell’intelligenza, di eccitare la sensibilità più libera e curiosa, di
attivare il gioco di associazioni tra realtà, forme e conoscenza diverse.
Quid nihil nisi minus, è un’opera del 1969, esposta la prima volta alla Galleria La Salita; anche in uno degli
sketches del videotape inciso per la mostra Gennaio ’70 al Museo Civico di Bologna a cura di R. Barilli - M.
Calvesi - T. Trini, Fabro sta in posizione obliqua in parallelo con un tavolo e tiene il dito teso gridando: ”Quid nihil
misi minus?”. AR è del 1990, mentre Il Giorno mi pesa sulla notte II è datato 1996.
A R deriva dalla radice indoeuropea ar (muoversi, comportarsi in modo corretto), come il latino ars (arte, abilità,
qualità, mestiere) e come la parola artus (membra, braccia), cioè il prolungamento articolato del corpo verso
l’esterno; originariamente quindi anche la parola ars aveva un’accezione pratica, ossia la capacità di fare
armonicamente. L’opera è composta da quattro teli in garza di cotone naturale intinta parzialmente nell’inchiostro,
appesi in modo da dare forma alle due lettere. Il motivo in giallo e rosso sul tessuto riprende le macchie di
Rorschach, immagini speculari il cui significato è l’interpretazione stessa, in cui tutto il senso dell’immagine si
sposta quindi dalla rappresentazione alla percezione di ciò che vi è rappresentato. I teli con le macchie di
Rorschach sono quelli esposti in occasione della mostra personale al PAC di Milano nel 1980. In quel caso i teli
intrisi di colore distesi e appesi dal soffitto segnalavano la soglia di ingresso nei diversi Habitat allestiti.
Potremmo dire che Il giorno mi pesa sulla notte sia il risultato di Ar, cioè del rapporto tra arto e arte, tra il fatto di
immaginare e portare alla luce attraverso il fare artistico. La frase incisa su una lastra di marmo, Quid nihil nisi
minus, allude, altresì, alla morte dell’arte per assenza di fantasia e abilità manuale, un collasso provocato dal
riduzionismo radicale e concettuale che tendendo al minimo, alla banalizzazione lineare del rapporto tra
significato e significante, conduce al nulla. Un percorso opposto a quello di Fabro che sosteneva come l’artista
porti le cose e la materia fuori dal nulla per assumere una forma artistica, aggiungendo bellezza e meraviglia alla
tecnica. Per spiegare questa opposizione Fabro amava citare una frase di padre Florenskij secondo il quale:
“l’opera d’arte come tale è una realtà che supera se stessa, vale a dire che ci dice e ci dà di più di quello che essa
è direttamente attraverso la percezione dei sensi”. Un di più che è il quid misterioso dell’opera d’arte (quel non so
che frutto della spezzatura), la cui verità consiste nell’essere tanto cosa quanto immagine, tanto oggetto quanto
metafora.
Osserviamo il primo lavoro: Il giorno mi pesa sulla notte II. Il titolo ha qualcosa di poetico, risuona, lascia spazio
all’immaginazione, non si chiude in senso auto-referenziale, e funziona anche in modo didattico e autobiografico
perché nasce sicuramente da un’esperienza personale, da una sensazione provata in proprio. Il giorno mi pesa
sulla notte II, è realizzato con tre blocchi di pietre diverse, di cui una chiara, un’onice, gli altri due scuri in marmo
Nero Marquina. L’onice, a prima vista informe, sembra una scheggia, un macigno, come quelli lasciati a terra in
una cava, un masso rotolato dalla montagna verso valle. In questo senso, quel blocco, mantiene tutto del suo
essere naturale, appare per quello che è, una pietra molto pesante. Poco lavorata dalla mano dello scultore che
vi accenna solo delle linee di panneggio. Più che di qualità dovremmo parlare di quantità, di peso, ingombro,
gravità e staticità. Nell’insieme è un lavoro di scalpellini, eseguito senza troppi abbellimenti e grazie, terminato
con la prima sbozzatura. Gli altri due pezzi di marmo scuro sono invece molto lavorati dalla mano dell’uomo che
con fatica, tecnica, intelligenza e creatività li ha trasformati in una forma artificiale affidandogli poi il valore di
immagine. Dei piccoli inserti di puntini bianchi e un titolo hanno fatto volare nell’immaginario poetico le due
colonne. Ricordando ancora le parole di padre Florenskij, questi due pezzi di marmo nero sono due semplici
cilindri, come due fusti di colonna, ben torniti, levigati, lucidati con raspa, spazzole e panni cerati, gesti lenti e
carezze; hanno una superficie scura, nera come la notte, che copre bellamente la materia e ne alleggerisce il
peso, lasciando sparire la natura di pietra sotto il velo della metafora.
A questo proposito sosteneva Fabro: “Se la pietra diventa fiore non contiamo che sia pietra, né che sia fiore, è
altro: scultura”. Una qualità espressiva e poetica che è il valore aggiunto alla materia dall’intelligenza e fantasia
dell’artista. Infatti si noti che le due facce alla base del fusto presentano una serie di scanalature circolari che
servono a far apparire quel tronco di colonna come un foglio di carta arrotolato su se stesso, come fosse un
manifesto. Se la colonna rotolasse, il foglio potrebbe stendersi sul piano del pavimento. I piccoli segni in bianco
che punteggiano la superficie, fanno immediatamente pensare al cielo stellato, come un sottile velo ricamato di
stelle lontane. Un’immagine, questa del manto stellato, partorita dai poeti che contemplavano il cielo a occhio
nudo di notte. Il giorno, un blocco di pietra informe, pesa sulle due colonne, che sono la notte. I due cilindri
sopportano il macigno pesante come una giornata girata male. “Queste opere -ha scritto Fabro- sono nate da un
modo di osservare le relazioni che intercorrono fra cosmo e immagine, o fra disordine e immagine. Mi incuriosisce
il fatto che l’immagine del cosmo sia inizialmente informe e prenda forma solo attraverso la conoscenza. Spesso
ho definito lo stato d’animo di questa sensazione quotidiana “il giorno mi pesa sulla notte”. Parlando di giorno e
notte in scultura, non può non venire alla mente la Sagrestia Nuova di Michelangelo, dove il grande scultore
rinascimentale, ha realizzato le celebri tombe dei Medici. Due tra le sculture conservate in quello spazio,
raffigurano nelle intenzioni dell’artista, il Giorno e la Notte, ad arricchire la tomba di Giuliano de’ Medici di pensieri
sul sonno e il sogno, sullo scorrere del tempo e la morte.
Dicevamo che i tre titoli e le opere formano una sorta di rebus, un testo composto di immagini e parole. C’è
qualcosa di presocratico in queste tre opere. Qualcosa di primordiale. L’atto artistico che nasce dal desiderio di
arricchire il mondo di bellezza, per dare un senso alla vita e alla morte, per continuare a contemplare il cosmo, il
cielo stellato di notte anche quando il giorno pesa sulle nostre teste come un macigno. Contro la morte per
disarmonia o regressione, come amava ripetere Fabro.
Tornano allora a risuonare nella testa certe sue dichiarazioni. La sua intelligenza, la sua sensibilità e morale, la
sua ironia e lirica attitudine, di cui avvertiamo oggi la mancanza.
Possano i suoi fecondi pensieri accompagnare oggi ancora una volta i visitatori, soprattutto i giovani, artisti e non.
“La mia certezza: il mio senso per la mia azione. Una nuova logica che sia del particolare e dia i mezzi
allo sviluppo dello spirito umano nel mondo. Scoprire l’ordine delle cose, determinarne, invece che le
essenze, ai fini di un’inerte contemplazione, le utili proprietà secondarie, i modi di azione, indurre le cause
dagli effetti che si fan sentire. Acuire e sistemare a questo fine l’osservazione e la riflessione. Acuire gli
strumenti dello spirito ed estendere col loro mezzo in nuovi strumenti, la potenza della mano, prolungare il
proprio corpo in tutte le cose del mondo, come proprie membra obbedienti, imitando la natura, ma per
trasformarla secondo le umane idee. Analizzarla invece di astrarne. Sostituire al caso inventore il metodo
adeguato alla proficua riformatrice invenzione.
Assumersi questa impresa infinita.
Fare questo infinito, in cui l’uomo non si perderà, né vanamente si girerà. Scegliersi questa erculea via
della virtuosa fatica, lasciare la facile, seducente, fiorita via, senza frutto d’opere, della contemplazione
edificante, dagli sbocchi in altitudini buone solo agli amanti di precipitarsi nel nulla.”
Luciano Fabro, Parole e pensieri di Francesco Bacone, 1963
In concomitanza con la mostra di Luciano Fabro, la Galleria Christian Stein è lieta di comunicare che
prossimamente presso la Casa Degli Artisti si terrà l’evento di intitolazione di quello che era lo studio dell’artista.
Per l’occasione sarà presentata un’opera nella sede di corso Garibaldi 89/A, Milano.