Lukas Glinkowski – 00

Informazioni Evento

Luogo
LUIGI SOLITO GALLERIA CONTEMPORANEA
piazza De Nicola 46 , Napoli, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

Lunedì - venerdì > 9.00 - 18.00 / sabato e domenica > su appuntamento

Vernissage
23/09/2022
Artisti
Lukas Glinkowski
Generi
arte contemporanea, personale

Luigi Solito Galleria Contemporanea riparte dopo la pausa estiva con la propria programmazione, annunciando la prima personale in Italia dell’artista polacco Lukas Glinkowski.

Comunicato stampa

Luigi Solito Galleria Contemporanea riparte dopo la pausa estiva con la propria programmazione, annunciando la prima personale in Italia dell’artista polacco Lukas Glinkowski.
“00” solo exhibition è frutto di un lavoro di produzione condivisa con la galleria che lo rappresenterà in Italia, sostenendolo anche all’estero.
Venerdì 23 settembre dalle 19:00 la galleria apre al pubblico con 13 lavori inediti pensati dall’artista per lo spazio nell’ex Lanificio. Lukas Glinkowski, che vive e lavora a Berlino, sarà presente in galleria anche per accogliere il confronto con critici, curatori, giornalisti, collezionisti e il pubblico interessato.

Si ringraziano per il supporto l’Associazione di categoria ANGAMC, lo Spazio NEA e iemme edizioni.
00 di Lukas Glinkowski partecipa alla XVIII Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI - Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani e alle Giornate Europee del Patrimonio 2022.
La vendita delle opere è disponibile anche sulle piattaforme Artsy, ArtPrice e 1stDibs.

BIO DELL’ARTISTA
Lukas Glinkowski, nato a Chełmno (Polonia) nel 1984, si trasferisce a Berlino all'età di tre anni. Dal 2007 al 2014 studia belle arti alla Kunstakademie Düsseldorf con Reinhold Braun, diplomandosi come allievo master di Katharina Grosse.
Dopo numerose mostre collettive in spazi off-space e destinati a progetti sociali, Lukas Glinkowski nel 2017 espone la sua prima mostra personale al Bruch & Dallas di Colonia: “I Like Disco & Disco Likes Me” – un'installazione interattiva che fa riferimento alle sue frequentazioni della scena disco club. Nel 2019 Glinkowski ha ricevuto il Villa Aurora Stipend a Los Angeles ed è stato insignito del Berlin Hyp Förderpreis. Nel 2019-2020 ha partecipato alla mostra itinerante “NOW! Painting in Germany today” dove presentato opere con specchi di grande formato al Kunstmuseum di Bonn, al Museum Wiesbaden, al Kunstsammlungen Chemnitz - Museum Gunzenhauser e al Deichtorhallen di Amburgo.
Più recentemente (2020-2021) Lukas Glinkowski ha esposto le sue opere allo Studio Berlin sotto la direzione artistica della Boros Foundation insieme a molti famosi artisti berlinesi. Nel 2021, con la galleria di Luigi Solito ha partecipato con un suo lavoro alla mostra “Portal #2 - Napoli/Berlino”, una collettiva di 16 artisti internazionali legati alla scena berlinese.
Lukas Glinkowski vive e lavora a Berlino.

TESTO INTRODUTTIVO
Il lavoro di Lukas Glinkowski si concentra principalmente sulla pittura, creando spesso un immaginario che si combina con frammenti di luoghi urbani, film e fumetti. Spazi che riflettono la cultura quotidiana, come per esempio i bagni pubblici o le stazioni della metropolitana, strettamente collegati alle tendenze della musica elettronica, dei fumetti e della cultura pop. Attraverso il proprio punto di vista artistico sulle strutture architettoniche e sociologiche, esamina questi spazi come riflesso della società.
Come supporto per i suoi dipinti, l’artista non usa la tela ma materiali come gli specchi, le piastrelle, il legno, il vetro e le carte da parati.
Negli ultimi anni Lukas Glinkowski ha ampliato il suo lavoro creativo coinvolgendo gli spettatori. Per la sua personale “I like disco & disco likes me” (2017, Colonia) si è ispirato al suo passato di frequentatore della vita notturna degli anni Novanta, allestendo uno showroom con piastrelle bianche, lavandini e specchi che ricordavano l’estetica dei bagni delle discoteche. I visitatori della mostra sono stati invitati a lasciare degli “scarabocchi” sulle pareti per fare propria questa stanza e contribuire a renderla più autentica. Prendendo spunto dalla cultura dei fumetti e della pop art, Lukas utilizza figure della letteratura per l’infanzia e la gioventù, figure di finzione (avatar) che collegano lo spettatore – attraverso il proprio riflesso – agli eroi e agli idoli della cultura pop. Infatti, Glinkowski fa riferimento a diversi presupposti psicologici: uno di questi è la “teoria del riflesso”. Secondo questa teoria, osservando e analizzando il comportamento degli altri, iniziamo a identificarci con esso, proprio come se ci guardassimo allo specchio. Aprendo quindi uno scenario sulla storia dello specchio nell’arte, da Velázquez fino a Pistoletto. Utilizza una versione anche più deformata (come nella vita) grazie alla pellicola specchiante che, a differenza dei veri e propri specchi, non restituisce mai le forme in maniera chiara e netta.
Un altro comportamento che si può osservare, quando si ha a che fare con personaggi reali o di fantasia, è l’“effetto camaleonte”: l’imitazione inconscia di gesti, atteggiamenti ed evidenti stati d’animo adattati al linguaggio del corpo della persona con cui sta interagendo. I bambini e gli adolescenti che scelgono i loro idoli ed eroi adottandone gesti, stile e postura, stanno creando la loro “vera” personalità? Che effetto ha il comportamento degli adulti quando questi si ispirano agli influencer dei social network? Presentano il loro vero “io” o si tratta invece della creazione di un’immagine ideale di loro stessi? E che cosa si intende per “vero me stesso”?
Sono tutte domande che Glinkowski pone agli spettatori introducendo nelle sue opere delle vere e proprie maschere, molto spesso quella di un vampiro (diventato anche il suo logo), nel segno di un mito leggendario che oscilla tra la morte e l’immortalità.
Il suo lavoro può essere inteso meno come pittura e più come scultura; Lukas cerca di esplorare i confini del genere e di ridefinirli per sé stesso. Le osservazioni degli spazi urbani giocano un ruolo centrale in questo senso. L’interazione casuale, se non addirittura arbitraria, di diversi “creatori” serve da ispirazione continua per il suo lavoro, come i graffiti o gli oggetti industriali. Lo stesso vale per le influenze della cultura pop che costantemente fluiscono frammentate nel suo processo creativo: soggetti della musica, della moda, dei fumetti e del cinema vengono accostati, collegati e fusi a elementi pittorici per reinterpretarli. Le sottoculture e il fascino del “trash” lo attraggono più di un’immagine “pulita”.
Non è la prospettiva su un soggetto che è rilevante, ma quella dello spettatore che trova un accesso soggettivo all’opera esposta. Nelle sue installazioni performative, i visitatori diventano “co-creatori” dell’opera applicando graffiti o disegni al lavoro, commentando, ripensando o sovrascrivendo le tracce trovate. L’attrazione verso ciò che non si può fare, che è proibito, è sostituita dal libero e collettivo interesse alla co-creazione dell’opera d’arte. Sceglie le frasi che leggiamo nei suoi lavori utilizzando il metodo del “cut-up”; smonta la sintassi di testi, anche di generi diversi, e li riassembla. Le parti di testo frammentate, come titoli di canzoni, testi e citazioni di film, devono essere rilette e inserite in un nuovo contesto.
La vera rivoluzione nel mondo dell’arte contemporanea, come in tanti suoi derivati, è la possibilità di remixare vari linguaggi per creare nuovi linguaggi, o anche detti meta-linguaggi. Del resto anche in musica, nel corso degli anni, si è sempre più sviluppata la tendenza al campionamento analogico, dove frammenti e pezzi vengono assemblati in un nuovo insieme. Lui lo fa ispirandosi all’ingenuità infantile, per donare ai lavori una freschezza e una spontaneità che solo i bambini sono ancora in grado di esprimere.
Ogni giorno succede qualcosa di diverso, crudo e disadorno. Ed è per questo che le sue opere appaiono come sono, come pezzetti disordinati messi insieme; come un insieme di istantanee in sequenza, come quando si fa zapping cambiando canale e ottenendo nuove informazioni.
Alle innumerevoli domande senza risposta che troviamo nella pittura, Lukas Glinkowski non cerca nemmeno di dare una soluzione. Al contrario, si pone – e ci pone – costantemente nuovi quesiti. Analogamente al campionamento nella musica, nelle sue opere presenta un mash-up visivo. Frammenti e oggetti di scena si trasformano in un nuovo insieme il cui significato è configurato dagli spettatori stessi: citazioni storico-artistiche e riferimenti contemporanei sono indicazioni estetiche o concettuali. Nell’opera di Glinkowski non si tratta di proporre un significato armonico e coerente, ma di un accesso individuale in cui il punto di vista dell’artista e quello dell’osservatore non devono necessariamente coincidere. Questo approccio decisamente postmoderno crea uno spazio che ci permette di giocare con le nostre abitudini alla visione e al pensiero, un gioco che contempla contemporaneamente il caso, il caos e la pluralità, o che porta addirittura all’incommensurabilità. Lukas Glinkowski ci trasporta in un mondo pittorico che deriva dalle sue osservazioni ed esperienze quotidiane, a volte forse anche da sogni o idealizzazioni: spazi urbani, film, brani, cartoni animati, videogiochi, cultura pop e disco club. Poiché è particolarmente interessato alla sottocultura, i luoghi che evoca sono spesso tanto morbosi quanto trash, e le sue realizzazioni sono costituite da prodotti industriali ordinari. La consistenza degli oggetti che egli stesso costruisce determina così una “occupazione spaziale” delle sue opere, che in ogni caso non si limitano all’allestimento a parete; a volte i visitatori della mostra sono persino invitati a partecipare alla sua pittura. Forse per dimostrarci che il suo universo è in realtà un mondo che possiamo scoprire di nuovo con i nostri occhi, ma vedendolo a modo suo. Non vuole spiegarcelo, ma come spesso accade nella vita, le domande ben poste sono più illuminanti delle risposte precise.
Il mondo delle immagini di Lukas Glinkowski mette in scena collisioni sociali ed estetiche: trasferisce lo slang della strada, i graffiti, gli slogan e gli stickers che colonizzano lo spazio pubblico, all’universo asettico delle gallerie e delle sedi espositive, dove le sue opere in un primo momento appaiono fuori luogo, come degli imbucati a un ricevimento di alta cultura. Non si attengono al tono colto e altezzoso della sublimazione estetica ma parlano il linguaggio ruvido di una cultura giovanile che non nasconde nemmeno la malizia criminale quando cerca (o tenta) di attirare l’attenzione.
Fin dall’inizio, la vitalità di questa scena underground anarchica e la sua incondizionata volontà di esprimersi sono serviti come fonte di inspirazione per l’arte di Glinkowski. Piuttosto che guardare alla storia dell’arte, Lukas va oltre i grandi e rassicuranti viali della città per dirigersi verso i non luoghi urbani che pullulano di tag e di graffiti con slogan sovversivi. Qui trova l’ispirazione pittorica necessaria per far progredire la sua arte, nei negozi di street food arredati con sedie di plastica, nei lotti urbani vuoti ostruiti dai cartelloni pubblicitari e dalle toilette illuminate al neon.
Durante queste esplorazioni, la macchina fotografica è la sua compagna indispensabile, lo storage device delle informazioni che poi elabora al computer e in studio. Anche se i temi dell’immagine prendono origine dalla subcultura, questi subiscono un processo di trasformazione per poi riapparire in modo alterato nelle sue opere. Glinkowski infatti non utilizza mai immagini già finite, cose del mondo reale “ready-made”. Gli elementi delle sue texture sono sempre il risultato di un processo creativo, concettualmente controllato. Le forme vengono selezionate, modificate o copiate in pittura, ritagliate con un cutter e poi applicate a un supporto, di solito rigido e resistente. Glinkowski naviga così in una zona di confine della pittura; forse sarebbe più appropriato descrivere le sue opere come collage di parole e immagini, come oggetti pittorici su cui forme di colore sono incollate, rivelando quindi un leggero rilievo. Come affissioni, writing e manifesti strappati – che sono immagini delle nostre realtà urbane – lui si sofferma sull’atto dell’applicazione di quel messaggio, come per gli stickers. Si tratta di opere che si collocano a metà strada tra la citazione della realtà e l’arte visiva.
Questa posizione intermedia è anche documentata dal fatto che le informazioni dell’immagine non sono mai armonizzate, né a livello formale né a livello di contenuto. Glinkowski non è un artista che si sforza di raggiungere una sorta di omogeneità pittorica o di rilasciare uno statement personale, inteso come messaggio leggibile. È interessato di più a mantenere la disparità di slogan, forme e “grafie”, affinché l’autorialità collettiva – che lui occasionalmente perseguita – possa divenire prevalente. Ciò che però queste immagini hanno in comune è il tono minaccioso e aggressivo che Lukas attinge dai fumetti underground, film horror, fiabe (che spesso non sono poi così innocue) e dai messaggi virali di odio ed intolleranza, qualcosa che salta agli occhi degli spettatori perché questi non hanno la possibilità di prenderne le distanze. Gli spettatori sono sempre parte dell’immagine, poiché vengono “catturati” dalla superficie riflettente, divenendo così elementi vivi dell’opera. Le opere non sono semplici e inoffensivi riquadri, invitando gli spettatori a immergersi contemplativamente in mondi fatti di immagini lontane, ma al contrario le prospettive sono invertite e la spinta principale delle opere è verso gli spettatori.
Le opere speculari di Glinkowski si basano su un effetto esterno che a sua volta mette in discussione l’estetica autonoma dell’opera d’arte. Nessun mondo dell’immagine autonoma e autosufficiente viene costituito indipendentemente nei suoi lavori; le sue opere si definiscono invece come un derivato e un riflesso di una realtà sociale che – come dice il messaggio – non può assolutamente essere ignorata dall’attività artistica. Dove sarebbe il confine estetico che delimita l’opera dalla realtà quotidiana? In ogni caso, non si può parlare di autonomia dell’immagine nel suo caso, poiché le sue opere sono interlocutori di una realtà sociale che trova posto nell’immagine in maniera naturale.
Le sue opere riflettono chiaramente una realtà extra-artistica le cui forme di comunicazione appaiono estranee e incomprensibili solo a chi ci si avvicina per la prima volta.
È quindi ancora più urgente l’apertura dell’arte contemporanea, e della pittura in particolare, ai codici con cui i giovani delle periferie (e non solo) comunicano. Perché questi linguaggi clandestini meritano di essere percepiti al di là degli angoli remoti e “irregolari” dove di norma trovano spazio.
Questo è ciò che l’arte di Glinkowski insegue. Non visualizza tanto l’espressione individuale, l’idioma privato, ma piuttosto i codici subculturali, restituendo l’immagine al contesto sociale da cui l’artista ha tratto ispirazione. È ovvio che questo processo articola una richiesta di apertura dell’immagine e della pittura in generale. Forse la pittura ha coltivato un’esclusiva forma di autosufficienza per troppo tempo. Per quanto plausibile sia questo meccanismo di protezione e di elusione sociale fa bene ascoltare il gergo di strada di Glinkowski, la voce di un’altra realtà, possibilmente più cruda.

(Parte del testo è tratto dal catalogo “Maybe I am barking up the wrong tree - but we’ll see!”, Hatje Cantz Verlag, Berlino, 2021)