Manuela Cirino / Leoncillo – Da me quanto dista la terra?

Manuela Cirino in dialogo con Leoncillo.
Comunicato stampa
Il MACC (Museo Arte Ceramica Contemporanea) di Torgiano inaugura la nuova stagione espositiva nelle sale di Palazzo Graziani Baglioni con una mostra che rende omaggio ad un grande scultore, Leoncillo Leonardi (Spoleto 1915 – Roma 1968), posto in dialogo con una delle artiste più interessanti nel campo della scultura contemporanea: Manuela Cirino (1962).
La mostra, nata grazie alla collaborazione con l’Archivio Eredi Leoncillo, Umbertide e Montrasio Arte, è voluta dall’amministrazione comunale e in particolare dall’Assessore alla Cultura Elena Falaschi e segna l’apertura di una lunga serie di manifestazioni culturali che coinvolgono proprio il museo comunale di Torgiano, centro nevralgico per la promozione culturale e turistica del territorio resa possibile grazie anche all’associazione La Strada dei Vini del Cantico.
La natura dell’esposizione si rivela già dal titolo: Da me quanto dista la terra? Manuela Cirino in dialogo con Leoncillo, a cura di Lorenzo Fiorucci e Azalea Seratoni, un vero e proprio dialogo tra due modi diversi di concepire la scultura, che riescono a trovare una sintesi comune in un confronto sofisticato fatto di assonanze e dissonanze materiche e formali.
Manuela Cirino è un’artista attiva a Milano dove ha iniziato a operare a partire dalla metà degli anni Ottanta su vari fronti della ricerca e sperimentazione dei linguaggi. Nel campo della ricerca plastica, l’idea di scultura di Manuela Cirino tende in ogni senso a essere aperta, spesso mettendosi in relazione con la fotografia, il disegno, la parola.
Sono raccolte alcune opere di Manuela Cirino — si potrebbero chiamare ricerche — che offrono percorsi diversi di riflessione, ma che hanno in comune l’idea della trasformazione, il potere evocativo del dettaglio, una certa attenzione alla qualità evanescente delle cose e della realtà.
È l’opera L’instabilité (2024), per prima, a offrirci questa idea di trasformazione. Alcune forme, ognuna diversa, sono in relazione, in un rapporto quasi di interdipendenza, su un piano. Personificano dei movimenti, delle pulsioni, stati di passaggio, di bilico e di pericolo. Sono forme colorate, con una patina opaca, hanno l’opacità dei colori terrosi — gli engobbi sono terre — e un aspetto pittorico che fa pensare tanto alla nostra storia della pittura quanto ai vulcani e ai deserti. Anche Leoncillo respinge la colorazione, facendo di ogni colore qualcosa di necessario come magnificamente si può vedere nel Taglio rosso (1963) o nel trittico (Taglio rosso, Taglio bianco, Taglio nero) qui esposto per la prima volta. Leoncillo lo conferma nel suo Piccolo diario: “Non più colore ma materia che ha un colore, non più volume ma materia che ha un volume”.
È giusto parlare di materia e non di materiale, anche se si tratta, per entrambi, di ceramica. L’accostamento di Cirino e Leoncillo senz’altro poggia sulla condivisione di una stessa linea fabbrile che adotta la ceramica come mezzo d’elezione, come mezzo privilegiato, ma quasi per negarlo, per contraddirlo: la terra diventa materia metaforica.
Se per Leoncillo la ceramica esprimeva meglio di ogni altra materia il suo stato d’animo, la natura che cercava era un’altra, cercava una “natura artificiale”. Cercare una natura artificiale significa una nuova coscienza dell’opera come oggetto che si genera come una pianta che fa le foglie, che ripercorre i processi formativi delle cose del mondo.
Nei due autori c’è un’idea di organicità di ciò che cresce ed è vivo, c’è una piccola parte di destino non controllata che ha a che fare con la ceramica e le sue proprie modalità produttive.
La relazione tra una struttura portante e un soggetto è il centro di altre opere in mostra di Manuela Cirino come Sequenza III, liberamente ispirata all’omonima composizione che Luciano Berio scrisse nel 1965, nella quale un agglomerato vastissimo di comportamenti vocali viene configurato in un insieme, altrettanto sorprendente e mutevole, di forme.
L’importanza di affiancare le cose, il riverberare di un linguaggio in un altro, l’esercizio di traduzione e tradimento tra una espressione verbale e visuale, verbale e sonora, sono molto presenti nel lavoro di Cirino. Nuvole (2024) si mettono una accanto all’altra come per rafforzarsi e diventare figure guerresche. Debordano da una struttura filiforme e geometrica, un poligono che costituisce lo spazio di presentazione del soggetto. Sono nere ma si chiamano nuvole. Si smaterializzano a seconda della luce.
Anche Leoncillo lavora su una materia che pare dimenticare la consistenza della materia stessa, il suo corpo, il suo essere, proprio per la sua infinita trasformabilità. Diceva: “Il lavoro nasce dal suo stesso divenire”.
In uno dei momenti più difficili del suo percorso che provocherà una radicale trasformazione della sua pratica, in una citatissima autopresentazione per una mostra alla Galleria La Tartaruga di Roma (1957), Leoncillo scrive: “Per questo ora ho fatto foglie cespugli fiori, perché così mi è parso più facile ‘vedere’ di nuovo le cose. Dopo ne farò altre di meno naturali, quelle che mi premono di più: perché noi non siamo naturali”. Che è sia espressione di una esigenza di liberazione dopo una crisi, ma anche desiderio di ripartire dai fondamenti per vedere nuovamente. Così le opere di Manuela Cirino ci concedono la stessa possibilità di rigenerazione dello sguardo.