Marco Bertìn – Made in China

Informazioni Evento

Luogo
PALAZZO VICTORIA
Via Adua 8 - 37121, Verona, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al
Vernissage
09/10/2014

ore 19

Artisti
Marco Bertìn
Curatori
Luigi Meneghelli
Generi
fotografia, personale

Il lavoro fotografico di Marco Bertìn però non vuole essere la documentazione di quella che è diventata l’ultima frontiera del plagio, in cui si può replicare tutto: profumi, auto, moda, perfino strade, palazzi, chiese.

Comunicato stampa

Se il “Made in Italy” è sinonimo di gusto, stile, classe, il “Made in China” è sinonimo di copia, duplicato, riproduzione. Se, al di là della crisi, in Italia la qualità del prodotto è la sua identità, in Cina l’identità coincide con la quantità. E’ necessario dimenticare il “villaggio imperiale” e le sue “leggendarie luminarie”, perchè anche la Cina è diventata ormai un villaggio globale. Come pure è necessario dimenticare il vecchio slogan maoista “guarda al futuro”, perchè esso si è trasformato in “guarda al denaro”. Non c’è più nulla di mitico o di rivoluzionario in ciò che viene prodotto, ma solo la fatale e indistinta replica di oggetti di cui si sono persi l’origine e il senso.

Il lavoro fotografico di Marco Bertìn però non vuole essere la documentazione di quella che è diventata l’ultima frontiera del plagio, in cui si può replicare tutto: profumi, auto, moda, perfino strade, palazzi, chiese. Egli fissa la propria attenzione sulle “buone cose di cattivo gusto” che già il capitalismo selvaggio, spietato e senza pudori ha svuotato di ogni valore e di ogni riferimento culturale: souvenir, gadget, articoli sacri e profani, ecc. Gli interessa ciò che si può trovare dappertutto, ciò che è omologato, ciò che risponde alla stessa straordinaria domanda di indifferenziazione.
Ma l’operazione di Bertìn si spinge oltre: egli cerca soprattutto di svelare l’inquietante struttura che regola le leggi della produzione e del consumo di questa oggettistica dei “paradisi dello shopping” . Il fatto che in Cina ogni “gingillo” venga realizzato in milioni di copie finisce per universalizzarlo e, in un certo senso, trascenderne ogni valore psicologico, sociale, storico, estetico. Esso diventa un puro stereotipo (del consumo), un cliché della cultura di massa. Ma è proprio basandosi sulla banalità dell’oggetto, che Bertìn riesce a rivelare la dimensione di “spaesamento” che è insito in esso. E’ lo stesso fotografo che racconta come gli sia venuta l’idea di questo ciclo fotografico: “smontando le varie statuine di una matrioska russa mi sono accorto che il marchio che la contraddistingueva era ‘Made in China’ ”, ricorda. E’ come se egli avesse visto improvvisamente l’abituale come “altro”, il familiare come sconosciuto. E allora ha cominciato ad allargare il campo della sua indagine, ma solo per verificare come ogni cosa quotidiana (dunque familiare) provenisse da una dimensione ignota. La domanda che egli si è fatto con insistenza è di conseguenza: “che logica può associare la Statua della Libertà, la Tour Eiffel, Biancaneve e i sette nani con la Cina?”.
Se le cose dei nostri sogni e dei nostri giochi sono come oggetti animati, dotati di un’”anima”, di una vita affettiva, che circola, si comunica, si trasmette, seppure a livello spirituale, per il cinese si tratta perlopiù di un mondo impersonale, passivo, inerte. Non sono che merci immobilizzate nella loro presenza ottusa; merci mute e senza storia. Così, per tradurre visivamente questo “scarto” Bertìn adotta la sottile strategia della “collazione”, facendo coabitare il colore rosso della bandiera cinese con le immagini degli “oggetti del cuore” (provenienti dalle più disparate culture, ma tutti realizzati in Cina). Ed è come se egli volesse ricomporre l’infranto, riunire il qui e l’altrove.

Egli colloca sul rosso del fondo le immagini dei suoi oggetti in miniatura che, in questo modo, sembrano diventare autentici stemmi o simboli araldici custoditi in una teca o in uno scrigno “astratto”. Del resto, l’utilizzo di due tonalità di rosso fanno pensare a due piani, uno orizzontale tipico di una superficie espositiva e uno verticale che funziona da fondale. Non manca neppure il marchio giallo che richiama le cinque stelle della bandiera cinese e che traduce in ideogrammi la scritta “Made in Cina”. E’ così che paradossalmente l’oggetto kitsch all’ennesima potenza consegue un suo inatteso riscatto e che, come un attore sul palcoscenico, recita il suo copione seducente e “malizioso”.
Bertìn comunque, vuole che il suo messaggio sia massimamente chiaro: perciò elimina ogni disturbo scenografico. “Come Satie, egli dice, impiego il minimo di elementi per un massimo di resa”. Ma poi, alla maniera del bambino di Benjamin, a volte si traveste da regista e mette in moto argute trasformazioni e sottili rovesciamenti visivi. Così la Statua della Libertà viene colta di schiena come se stesse guardando il rosso della bandiera cinese e suggerisse un allarme per un’eventuale invasione gialla”, oppure l’immagine della croce (e quindi del sacrificio) viene collocata di fronte a un pacioso Budda che invece se la ride di gusto, come a sottolineare le diverse modalità di porsi nei confronti del trascendente tra Oriente e Occidente. Si tratta di tanti piccoli indizi, che diventano eclatanti nel “Polittico”: autentica apoteosi di giocattoli, sommatoria dell’universo ludico occidentale, che vuole essere una sorta di allusione ad una Cina che col tempo potrebbe finire per produrre interamente il nostro immaginario, senza mai “sapere” cosa produce realmente.
Più che estetico allora il discorso si fa etico. Tra le varie immagini c’è quella di una Madonna sostenuta da due mani oranti che si stanno arrossando, quasi che il colore della bandiera cinese le stesse invadendo, conquistando. E così l’indagine partita dalle tradizioni locali tradite, finisce per coinvolgere la storia stessa del mondo: le sue origini, i suoi credi, le sue religioni. E forse la questione non finisce neppure qui …

Luigi Meneghelli

Palazzo Victoria CONTEMPORANEA
Presents

Marco Bertìn MADE IN CHINA

Artistic Direction Manon Comerio
Curated by Luigi Meneghelli

Opening
Thursday October 9th 2014 at 7pm
Palazzo Victoria, Via Adua 8 – Verona

If the "Made in Italy" is synonymous of taste, style, class, the "Made in China" is a synonymous of copy, duplicate, reproducing
If, on the other side of crisis, in Italy the quality of the product is our country identity, the identity in China coincides with the quantity.
We need to forget the "imperial village" and its "legendary lanterns", because even as China has become a global village.
As well it’s necessary to forget the old Maoist slogan "forward-looking" because it has become "looks at the money."
There is nothing mythical or revolutionary in what is produced, but only the fatal and indistinct replica of the objects that you have lost the origin and meaning.

The photographic work of Marco Bertìn does not want to be the documentation of what has become the last frontier of plagiarism, which can replicate everything: perfumes, cars, fashion, and even streets, palaces, churches.
He fixes his attention on the "good things of bad taste" that already savage capitalism, ruthless and shamelessly emptied of every value and every cultural reference: souvenirs, gadgets, articles, sacred and profane, and so on. He is interested in what you can find everywhere, what is approved, what answers the question same extraordinary undifferentiated.
But the operation of Bertìn goes further: he seeks above all to reveal the ominous structure that governs the laws of the production and consumption of objects of this "shopping paradises." The fact that in China every "trinket" is made of millions of copies ends up to universalizing and, in a sense, transcend any value psychological, social, historical, aesthetic. It becomes a pure stereotype (of consumption), a cliché of mass culture. But it is precisely based on the banality of the object, which Bertìn fails to reveal the size of "disorientation" that is inherent in it. It 'the same photographer who tells how he came up with the idea for this cycle photo: "disassembling the various figures of a Russian Matryoshka, I realized that the mark that distinguished her was' Made in China'" he recalls. And 'as if he had suddenly seen as the usual "other," the family as unknown. And then began to widen the scope of its investigation, but only to see how everything daily (ie family) came from an unknown dimension. The question that he is done with insistence is therefore "logic that can be associated with the Statue of Liberty, the Eiffel Tower, Snow White and the Seven Dwarfs with China?".
If things of our dreams and our games are like animated objects, with a '"soul", a love life, which circulates, you are communicating, transmitting, albeit at a spiritual level, for the Chinese it is mostly a impersonal world, passive, inert. Goods that are not fixed in their presence obtuse; goods mute and without history. So, to visually translate this "waste" Bertìn adopts subtle strategy of "collation", making cohabit red Chinese flag with images of the "objects of the heart" (from many different cultures, but all made in China). And it is as if he wanted to rebuild the broken, bring together the here and elsewhere.

He puts on red background images of his miniature objects that, in this way, they seem to become authentic coats of arms or heraldic symbols stored in a case or in a box "abstract". Moreover, the use of two shades of red suggest two floors, one typical of a horizontal and a vertical display surface that acts as a backdrop. There's also the yellow logo that recalls the five stars of the Chinese flag and that translates characters in the words "Made in China". It 's so that, paradoxically, the object kitsch nth follows his unexpected redemption and that, as an actor on stage, reads his script seductive and "mischievous".
Bertìn, however, wants his message to be maximally clear therefore eliminates any disturbance spectacular. "How Satie, he says, use the minimum number of elements for a maximum yield." But then, in the manner of baby Benjamin, sometimes disguises himself as a director and sets in motion changes witty and subtle visual reversals. So the Statue of Liberty is captured back as if he was looking at the red Chinese flag and suggested an alarm for a possible invasion yellow ", or the image of the cross (and therefore the sacrifice) is placed in front of a placid Buddha instead if the laughs heartily, as if to underline the different ways of relating to the transcendent between East and West. It is many small clues that become glaring in the "Polyptych": true apotheosis of toys, playful western summation of the universe, who wants to be some kind of allusion to a China that could eventually end up producing entirely our imagination, without never "know" what really produces.
More than just aesthetic then the question becomes ethical. Among the various images is that of a Madonna supported by two hands praying that you are blushing, almost the color of the Chinese flag the same invading, conquering. And so the investigation game from local traditions betrayed, eventually involving the history of the world: its origins, its beliefs, its religions. And perhaps the matter does not end here either ...

Luigi Meneghelli