Marco Porta – Abito il sogno che mi abita
Il suono, il sale, la geometrizzazione degli elementi naturali come gli escrementi animali, le mosche che si posano su superfici, l’acqua che scorre.
Comunicato stampa
La città di Casale Monferrato, L’Assessorato Grandi Eventi, il Sindaco Giorgio Demezzi e l'Assessore Augusto Pizzamiglio sono lieti di annunciare la mostra personale dell’artista Marco Porta dal titolo Abito il sogno che mi abita.
Molto spesso nel dibattito visuale contemporaneo ci si perde nel discutere di cosa sia la coerenza. Sembra importante che un artista mantenga una cosiddetta linea. E in effetti la costante che attraversa il lavoro, quella che alcuni critici chiamano cifra, altri poetica, è un elemento stabilizzatore essenziale. Quello che però esiste di cacofonico nella nomencaltura estetica è proprio il dato fisso, la cifra, un residuo poco significativo. Quello che una mostra personale ha il precipuo compito di attivare è la relazione sostanziale che intercorre tra i lavori di un artista. Abito il sogno che mi abita ha questo significato. La coerenza non è un dato combinatorio a ornamento, è piuttosto un’empatia, un seme custodito entro un guscio, interiorizzato. In questa mostra Marco Porta pone una serie di lavori che costituiscono questo sogno abitato e generatore e che dipanano molta parte del suo pensiero. I lavori in mostra esistono all’interno di insiemi che annegano il contesto, la forma e la sostanza, dell’artista: il sale, la geometrizzazione e aritmerizzazione degli elementi naturali come gli escrementi animali, le mosche che si posano su superfici, l’acqua che scorre. Sono componenti del mondo che fanno il loro corso, che con normalità decorrono all’interno delle cose del mondo, e che hanno una vita tutta loro, la quale assume o può assumere rilevanza anche nelle nostre questioni. La geometria, l’ordine di un volo di mosca o di un fiotto di materia che crolla da un punto nello spazio ad un altro sono risultanti che hanno impatto su di noi in misura di quanto noi siamo in grado e siamo disposti, o obbligati, ad appercepirle. In questo senso il sogno di cui Marco Porta parla sin dal titolo della mostra è proprio questa corda vibratile che il suo orecchio ha avuto la possibilità umana e singolare di intercettare. Ed è quindi, allo stesso momento o epifania, un sogno abitato, qualcosa che gli si concede, lo ammette; e un sogno procreato, generato, creato.
La mostra presenta anche una serie di elementi puramente sonori; suoni. Questi sono parte di quel sogno che abita ed è abitato. Sono quell’elemento che corre la corda tra le due dimensioni e le unisce senza soluzione di continuità.
Lo spazio.
La mostra verrà allestita nelle sale di Palazzo Natta-Vitta. Al pian terreno in una manica recuperata appositamente per l’esposizione verranno dislocate tre opere. Le restanti al piano nobile del palazzo.
La lunga facciata, di oltre 50 metri, di palazzo Natta d’Alfiano in via Trevigi è scandita da alte finestre, a gruppi di due e tre, sovrastate da un timpano curvilineo e da una sottostante conchiglia stilizzata. L’elegante architrave sagomato, unito alle mensole di sostegno di uno dei due balconcini, racchiude un massiccio portale d’ingresso decentrato e sovrastato da una leggera rosta in ferro battuto con le iniziali incrociate del banchiere Vitta, che alla fine del Settecento aveva acquistato il palazzo, come ricorda nella Guida di Casale Idro Grignolio.
“Nel 1796, celibe, moriva il Marchese Natta, lasciando un patrimonio di 5 milioni, enorme per quell’epoca. Eredi furono i Principi napoletani Galone delle Tre Case, parenti per via femminile. Da loro il banchiere Vitta comprava il palazzo, vicino al Ghetto, e lo faceva ulteriormente sistemare. Nel 1806 aveva partecipato al famoso Sinodo di Parigi ed era stato creato Barone dell’Impero. In questo suo palazzo - nella parte verso Via Balbo - si era fatto riservare un piccolo locale per il culto nel quale, ancora oggi, si può osservare, su un architrave accanto ad una finestra gotica occlusa, la scritta in caratteri ebraici «Ricordati che sei polvere e che in polvere ritornerai». In quell’occasione aveva anche fatto tappezzare di seta le pareti e qualcuno notò che per la preparazione dei muri, occorrendo carta da incollare, aveva messo a disposizione carta da macero: si trattava dei molti fogli dei suoi registri di contabilità delle somme che aveva prestato ad usura a numerosi casalesi; prestiti evidentemente estinti”.
Resto di proprietà della famiglia ebraica fino al 1916, quando fu ceduto ad un prezzo di favore da Giuseppe Raffaele Vitta all’Ente Trevisio, perché potesse ampliare il confinante convitto. Il piano nobile era invece riservato all’apertura della Biblioteca e del Museo civico, al quale il ricco banchiere fece dono della preziosa quadreria di famiglia.
L’edificio ha una pianta fortemente irregolare con una manica centrale di circa 15 metri che divide in due il grande cortile centrale. E’ particolarmente accentuato lo sviluppo longitudinale della costruzione e del terzo cortile, che si estendono per quasi 80 metri, occupando un intero isolato.
A tale proposito Grignolio osserva: “Non ne conosciamo il progettista (del resto il fabbricato ha avuto varie ristrutturazioni nel tempo); sappiamo solo che fu Giacomo II Natta, Capitano della Guardia Ducale degli Arcieri che, alla fine del ‘600, fece eseguire la prima omogenea sistemazione. Altri lavori fece eseguire la figlia Maria Maddalena, Contessa di Frassineto, celebre amante del Duca Ferdinando Carlo, prima del suo confino nel 1709 a Piacenza”.
Poco dopo aggiunge: “Alla morte di lei (1744), il palazzo (con tutto il suo vasto patrimonio) era passato al nipote Giuseppe, il quale lo dotò di ampie scuderie (su disegno di Benedetto Alfieri) e ne fece ristrutturare gli ambienti (su disegno del Magnocavallo)”. Nacque lo scalone a doppia rampa e trovò la sua forma attuale il salone d’ingresso, con balconata, addobbi di trofei ed armature in cartapesta stuccata.