Marco Tamburro – People
Dopo quattro anni, l’artista romano torna a Padova con una nuova personale. Artista impegnato nel saper raccontare la vita quotidiana: una vita non vissuta, in cui l’uomo comune si lascia trascinare nel vortice dei suoi ritmi incessanti e frenetici, perdendo di vista il tempo che scorre troppo velocemente, senza riuscire a cogliere le piccole cose che lo circondano e che sta vivendo.
Comunicato stampa
L’Associazione Culturale spaziOfficina “quarnaro” ospiterà all’interno del proprio spazio espositivo, dal 7 al 30 giugno 2013, la mostra personale “PEOPLE” dell’artista romano Marco Tamburro. Dopo quattro anni, l'artista romano torna a Padova con una nuova personale. Artista impegnato nel saper raccontare la vita quotidiana: una vita non vissuta, in cui l'uomo comune si lascia trascinare nel vortice dei suoi ritmi incessanti e frenetici, perdendo di vista il tempo che scorre troppo velocemente, senza riuscire a cogliere le piccole cose che lo circondano e che sta vivendo.
Questo spiega il ruolo marginale che la figura umana ha nella sua pittura: è una semplice presenza, un ombra, uno spettro consumato dal tempo che insegue incessantemente le traiettorie infinite della città, attraversando lunghe strisce pedonali e salendo in alto a vertiginosi e monumentali grattacieli.
L'uomo rimane inevitabilmente schiacciato ed alienato da questo magma che è la metropoli odierna, simbolo della forza del potere ostile e aggressivo che lo sovrasta. Campiture di bianco e di nero, a volte interrotte da squarci accesi di rosso, esprimono al meglio la trasfigurazione di quel “teatro della vita” che egli vuole rappresentare. Questo teatro nei quadri di Marco Tamburro diventa una rappresentazione simbolica di un'umanità trasformata in tristi burattini manipolati da un congegno infinito di fili, tra i quali si rivede impotente anche lui.
La mostra è a cura di Barbara Peci, Marco Catanio e Lorenzo Silvestre
Catalogo in mostra a cura di Barbara Peci
Testi di Luca Beatrice
Inaugurazione giovedì 6 giugno, ore 19.00-22.00
Dal 7 al 30 giugno aperto su appuntamento.
Padova, 30 maggio 2013
Associazione Culturale spaziOfficina “quarnaro”
Via Quarnaro, 1
I – 35134 Padova
[email protected]
www.spaziofficina.com
BIOGRAFIA MARCO TAMBURRO
Marco Tamburro nasce a Perugia nel 1974.
Nel 1994 si diploma in architettura e arredamento all'Istituto d'Arte della sua città.
Nello stesso anno si trasferisce a Milano dove entra in contatto con l'ambiente artistico milanese, frequenta all'Accademia di Belle Arti di Brera il corso di scenografia ed inizia la collaborazione come assistente di diversi fotografi e scenografi. Questa scelta non è affatto casuale. In Marco Tamburro infatti è già maturo l'interesse vero gli ampi spazi del teatro, nei quali prendono forma e si animano, attraverso la sua visionaria fantasia creativa, imponenti pannelli pittorici.
Della pittura lo affascina la sua grande potenza espressiva che assolve un ruolo fondamentale nel riuscire a tradurre immagini visive in mezzo comunicativo: ma anche la sua versalità nel riuscire ad interagire con altri linguaggi artistici come il teatro, la fotografia, l'arredamento, l'architettura, tutte le componenti essenziali per la realizzazione di un impianto scenografico.
A Milano inizia la sua prima esperienza pittorica ed espone le proprie opere in alcune gallerie e spazi alternativi della città, legati soprattutto all'ambiente della moda e del design.
Dopo la permanenza a Milano, Tamburro decide di trasferirsi definitivamente a Roma, città che lo attrae da sempre per le sue invidiabili bellezze artistiche e per l'intensa vita metropolitana.
A Roma ritrova la sua passione per il teatro, comincia a lavorare con diverse compagnie teatrali, si dedica a tempo pieno alla pittura e nel 1999 si diploma all'Accademia di Belle Arti di Roma.
Nel 1999 fonda anche un' associazione culturale che si interessa esclusivamente di arti visive.
La vera e propria formazione artistica di Marco Tamburro avviene a Roma, sia per quel che riguarda il raggiungimento di una completa padronanza pittorica, sia per i riconoscimenti e gli apprezzamenti ricevuti in ambito lavorativo. Qui infatti, si inserisce nel giro di pochi anni nel jet set artistico romano, frequenta importanti critici e galleristi, esponendo in diverse gallerie e partecipando a numerose collettive con giovani artisti emergenti.
L'ambiente culturale romano lo eleva ad artista impegnato nel saper raccontare la vita quotidiana: una vita non vissuta, in cui l'uomo comune si lascia trascinare nel vortice dei suoi ritmi incessanti e frenetici, perdendo di vista il tempo che scorre troppo velocemente, senza riuscire a cogliere le piccole cose che lo circondano e che sta vivendo.
Questo spiega il ruolo marginale che la figura umana ha nella sua pittura: è una semplice presenza, un ombra, uno spettro consumato dal tempo che insegue incessantemente le traiettorie infinite della città, attraversando lunghe strisce pedonali e salendo in alto a vertiginosi e monumentali grattacieli.
L'uomo rimane inevitabilmente schiacciato ed alienato da questo magma che è la metropoli odierna, simbolo della forza del potere ostile e aggressivo che lo sovrasta.
Nel corso del tempo Tamburro riduce progressivamente nelle proprie opere l'uso di ritagli fotografici, una scelta determinata dalla consapevolezza di aver ormai scelto come mezzo espressivo principale la pittura, in cui le campiture di bianco e di nero, a volte interrotte da squarci accesi di rosso, esprimono al meglio la trasfigurazione di quel “teatro della vita” che egli vuole rappresentare.
Questo teatro nei quadri di Marco Tamburro diventa una rappresentazione simbolica di un'umanità trasformata in tristi burattini manipolati da un congegno infinito di fili, tra i quali si rivede impotente anche lui.
Il plauso e il consenso che riceve dal collezionismo e dal mercato dell'arte ha fatto si che gallerie e istituzioni pubbliche si stiano interessando sempre più alla sua opera e la diffondano con mostre di rilievo e pubblicazioni su alcune delle più importanti riviste d'arte italiane.
PITTURA COME AUTOBIOGRAFIA
Di Luca Beatrice
Tu li hai giocati tutti
senza avere in mano i re,
pieno e cavalli o niente:
tutto il resto che cos'è?
Ti sei giocato donne
che impazzivano per te,
eppure un giorno hai pianto in un caffè.
Roberto Vecchioni (L'uomo che si gioca il cielo a dadi, 1973)
I dipinti di Marco Tamburro sono tra le opere d'arte più autentiche e veritiere in cui mi sono imbattuto negli ultimi tempi. Non è cosa che capisci subito, prima ci devi un po' fare l'abitudine alla sua gestualità vorticosa, alla discontinuità nevrotica che corre sulle sue tele, quasi che un pittore futurista fosse piombato nel nostro tempo a parlarci ancora di dinamismo, di metropoli, di movimento. Poi prendi confidenza con le sue immagini, peraltro mai realistiche ma sempre filtrate dall'abitudine e dalla familiarità con l'astrazione (non dimentichiamoci che Marco è figlio d'arte, di Antonio, pittore anche lui), e ti accorgi che nel caos di informazioni, sensazioni, immagini che concorrono a definire il nostro tempo, al centro c'è lui, l'artista, l'uomo, con la sua storia a frammenti, a episodi.
Dadi, carte, scacchi, trottole, donne, uomini e la tavolozza del pittore. Presenze e oggetti che sono parte di un'esistenza quotidiana evidentemente e volutamente disordinata, così come gli orologi che battono il tempo, ossessivamente, senza riuscire in alcun modo a trattenerlo. Rispetto ad altri artisti che scelgono di parlare di sé, Tamburro rifugge dal narcisismo e dall'autocompiacimento. Lui dalla tela è assente, fantasma, simulacro o piuttosto spettatore. E ti dice, alla fine vada come vada. Non si autoritrae, non si traveste, preferisce parlare per simboli e concatenazioni casuali.
A questa lavoro se ne collega un altro, che potrebbe essere il suo gemello. Da una vecchia macchina per scrivere esce un ritratto a colori di un clown. Tamburro ha l'ambizione di raccontare una storia, ma invece delle parole ha scelto le immagini, invece delle pagine di un libro, le superfici dipinte. Evidente, questo frammento molto riuscito tratta della condizione dell'artista "come pagliaccio", in bilico tra genialità e cialtroneria, destinato a farci ridere e macerato dalla tristezza interiore. Il buffone o il cortigiano che allieta le tue serate, stringe mani alle inaugurazioni, recita la parte che gli viene chiesta anche se il momento magico, quello in cui il quadro nasce, è già finito.
Il tempo è ossessione, lo era per Dalì, quella "Persistenza della memoria" che ostacola e non lascia correre. Lo è per Tamburro che le ore le mastica, veloci e sconvolte in una nozione spazio-tempo risolta nel circolare svolgersi di un pennello inquieto. Il tempo si scioglie, tra jet leg di spettatori, più che attori, travolti dalle sue lancette impazzite. Un tempo dilatato o perso, sospeso in una sala d'attesa o cinematografica, dove certo passa ma non ce ne accorgiamo perché partecipi di una realtà altra, non nostra, inventata. Parti talvolta inconsapevoli di quell'ingranaggio inarrestabile che è la vita, entro cui ci muoviamo forsennati senza spazio d'arresto. Un po' Charlot - l'operaio Charlie Chaplin - il nostro artista sente il ritmo incalzante e nevrotico dei "Tempi Moderni" facili a condurre all'esaurimento, di risorse ed energie. Ma le sue pitture non si fermano. Sono specchio di quella modernità fluida che guarda al passato, universale, con pizzichi di una memoria personale. La costruzione della città è fatta da lego, grattacieli accatastati alla rinfusa nella giungla contemporanea. New York come Roma; satelliti di cupole e scacchi pedonali nel traffico metropolitano attraversati da statue, immobili ma presenti, pronte al collasso, al crash con la frenesia e il disordine cittadino. Dal Colosseo, dove i gladiatori potevano dare sfoggio della potenza romana, che faceva della schiavitù la sua forza, alla sua antitesi, il simbolo del nuovo mondo aperto alla libertà di tutti i popoli, l'omonima Statua, che accoglieva le navi di immigrati in approdo sulla grande mela.
La città, quella antica e quella moderna, sono intese come caos, esplosione. Luoghi di incontro e scontro di civiltà, di ambizioni personali, di sogni, di avventure, partenze e arrivo di viaggi e ricerche.
Al bianco e nero, nelle tracce di un gesto pittorico performativo per la fluidità che spinge Tamburro a "colpire" la tela, si aggiungono contrappunti di colore che accendono trottole roteanti, scacchi , dadi e palle da biliardo.
Alla pittura si sommano poi il collage e la fotografia, nascosti tra cartelloni pubblicitari, un boom visivo che divora e mastica i contenuti trasformando il simbolo in mistero.
La città è al centro, la città soggetta al bombardamento mediatico, di quella comunicazione visiva che imperversa sull'esterno, e la città intima, non visiva, nascosta negli interni di tante piccole finestre chiuse da una tenda dietro la quale pulsano le microstorie quotidiane. Città condominio, disseminate di tracce, di dettagli invisibili, parti de quell'unico puzzle che va ricostruito intuitivamente, senza istruzioni d'uso.
Come nella lucidità del romanzo "potenziale" di George Perec ("Vita. Istruzioni per l'uso", 1978) dove 99 capitoli aprono su altrettante vicende considerando come grado zero quell'istante bloccato in un solo palazzo dove sono contenute storie potenzialmente infinite, così in Tamburro il caos apparente è invece regola che si lascia stravolgere dal gesto espressivo. Il disordine visivo, di tipo concettuale, si sottomette all'ordine ideale di voler rappresentare una storia personale attraverso i simboli di una contemporaneità che sè così confusa.
Ancora l'autobiografia mascherata dal simulacro della realtà: le donne, congelate in frammenti di vita quotidiana, forse madri o farse oggetti di un desiderio incolmabile, contenitore e contenuto insieme.
Quella di Tamburro è una raccolta biografica, nei suoi quadri sono raccontate tutte le ossessioni, le paure, le gioie o i desideri della sua vita. E' tutto lì. Questione di sapersi sintonizzare.