Mario Giacomelli
La mostra si concentra sul tema del paesaggio agreste, vedute aeree a volo d’uccello di campi arati e paesaggi contadini, immagini ricche di contrasti dinamici e chiaroscurali accentuati in camera oscura.
Comunicato stampa
Mario Giacomelli (Senigallia, 1925-2000) si dedica alla fotografia a partire dal 1953, dopo aver lavorato come tipografo e averne maturato una sensibilità che non lo avrebbe mai abbandonato, fino ad ottenere già nel 1955 i primi riconoscimenti per le sue serie fotografiche e le sue prime pubblicazioni.
La mostra si concentra sul tema del paesaggio agreste, vedute aeree a volo d’uccello di campi arati e paesaggi contadini, immagini ricche di contrasti dinamici e chiaroscurali accentuati in camera oscura: bianchi “mangiati” e neri saturati, l’uso dello sfocato e del flash, l’esaltazione materica e “informale” della grana e del supporto, come è evidente nella fotografia degli anelli concentrici di un tronco segato.
Ne nasce una tipologia d’immagini che, seppur disponendosi in serie fotografiche legate a un tema, si allontanano dal reportage documentativo (si racconta che in alcune occasioni paghi dei contadini per fare dei segni con i trattori sui campi che desidera fotografare), per assumere un’identità non solo e non tanto ancorata al reale, quanto alla capacità di Giacomelli di creare una drammaturgia fotografica ad ampio spettro, che racchiude quindi tanto l’emergenza visiva dell’oggetto fotografato, quanto la cultura materiale ad esso legata e i fantasmi immaginativi ad esso soggiacenti e qui risvegliati dall’occhio del fotografo e dal suo obiettivo. Come Mario Giacomelli stesso ha dichiarato: “Io credo all’astrattismo, per me l’astrazione è un modo di avvicinarsi ancora di più alla realtà. Non mi interessa tanto documentare quello che accade, quanto passare dentro a quello che accade.”
La profonda competenza tecnica di Giacomelli viene quindi declinata in queste immagini fino a portare la fotografia verso un esito quasi astratto (fu amico di Alberto Burri a cui lo unì una vicinanza anche formale) che pur intrattiene con il reale un dialogo e un rapporto vincolato, ma che eccede di gran lunga il mero scopo documentativo. Ne nasce una forma di presa sul territorio che assomiglia a una Land Art del profondo, una geografia umana che svela i nessi tra ambiente e essere umano, un complesso strumento di ricerca umanistica e territoriale, un ripensamento sulla storia, la vita umana e la morte. Lo strumento davvero importante, afferma, sono i suoi occhi: “uno strumento per prendere, per rubare, per immagazzinare cose che vengono poi intrise e rimesse fuori, per gli occhi degli altri.” Sono immagini che, soprattutto nel momento storico attuale, ben riflettono le tematiche di ascolto e di difesa della natura, del resto così ben espresse a partire dai titoli che Giacomelli stesso volle dare a queste serie fotografiche: “Presa di coscienza sulla natura”, “Storie di terra”, “Motivo suggerito dal taglio dell’albero”, “Neve a Sassoferrato”.
“La fotografia non è il risultato di una cosa meccanica, ma è una cosa tua, proprio perché continua. Il mezzo meccanico blocca, ferma e basta, ma occorre capire che una volta scattato, non si è fatto nulla: l’orgasmo vero lo si ha dal momento che si sceglie l’immagine e la cosa prende vita da quel momento, comincia a respirare, e se non la si vuol far morire bisogna svilupparla in una determinata maniera, poi bisogna stampare (pensa che non ho nemmeno il termometro perché si deve anche poter sbagliare, e talvolta l’idea nuova sta proprio nell’errore), correggere, modificare, per tenerla in vita.”
(Mario Giacomelli, dalle sue annotazioni sulla Fotografia, anni ’90).