Massimo Pennacchini – Il teorema del tango
Una mostra di pittura interamente dedicata al Tango.
Comunicato stampa
IL LINGUAGGIO DEL CORPO
Una coppia allacciata nel tango, che danza sui ritmi accesi e passionali di un bandoneón, e di una musica che Astor Piazzola ha innovato e trasportato dalle balere di Buenos Aires fino al limbo della classicità, senza mai tradirne l’origine popolare; tutto questo ha fatto di Massimo Pennacchini l’interprete di un rito sensuale e scenografico, in cui si celebra, ancor più che la passione amorosa, lo scontro e l’incontro fra due corpi in movimento, che si attraggono e si respingono, in un gioco impenetrabile di sguardi e di gesti, isolati dal mondo, apparentemente incuranti di chi li guarda, e interpreti assoluti di una partitura prefissata e ogni volta reinventata.
L’incontro con la pittura di un evento così singolare era inevitabile, fatale persino, e va dato atto all’artista, che lo ha reso possibile, di un’attenzione e di una sensibilità al colore e al movimento del tutto coerente allo spirito che anima la danza degli adepti della milonga.
Il linguaggio del corpo è qui rappresentato in funzione di un moto che parte dalle braccia e dalle gambe della coppia danzante: i movimenti rapidi e scattanti dei due corpi allacciati sottolineano la forte differenziazione dei ruoli, suggerendo le singole tappe di un dialogo muto, dove l’uomo impone la forza di un atto di dominio, e la donna quello più sottile e ardentemente seduttivo di una sottomissione simulata e messa in discussione dalle variabili ritmiche dei suoi passi.
La fluidità di una pittura volutamente atonale, dove spesso prevale un rosso infuocato, sottolinea soprattutto i corpi dei protagonisti, tralasciando di approfondirne i volti, per esaltare l’effetto del movimento sulle gambe e sulle anche femminili, fasciate dagli abiti canonici, succinti, leggeri, suadenti, rivelatori.
Il ruolo virile si esprime invece in abiti più comuni e meno connotati: camicia, pantaloni, bretelle e soprattutto cappelli che ombreggiano lo sguardo, e dove lo sforzo muscolare di sostegno nella danza trapela dalle pieghe delle stoffe sempre bianche o nere, e nella forza trattenuta delle mani.
Le posture coreografiche, colte da Pennacchini con acutezza e precisione, sono narrazioni primarie, di immediata comprensione, come primarie e asciutte sono le stesure pittoriche, che in alcuni casi si riducono a pure macchie bicromatiche di ombre e di luce, ma senza mai disperdere il bandolo del racconto visivo.
Non è però del tutto congruo parlare di realismo in questo tipo di rappresentazione, poiché il disegno, che pure è felicissimo se non virtuosistico, lascia spazio a divagazioni e riflessioni sulla provvisorietà di un dialogo erotico fittizio, che si esaurisce in una canzone; in definitiva la riproduzione pittorica del reale enuncia qui esplicitamente una teatralità incorporea, che si gioca in uno spazio utopico, non a caso assai vicino geograficamente e concettualmente alla scrittura di Jorge Luis Borges.
Di particolare suggestione sono poi le composizioni dove appare la bettola o la sala popolare, o la presenza dei suonatori: al di là della perfetta riconoscibilità, si respira un’atmosfera straniante, che rimanda a certa pittura americana degli anni Trenta, e di cui Edward Hopper è stato il capofila.
La pittura di Pennacchini ha valenze compositive e coloristiche di grande spessore, essendosi confrontata in passato con la classicità della natura morta e della ritrattistica. La sua tecnica ha percorso quindi le tappe evolutive di una riflessione approfondita su forma e colore; in questa ultima fase si assiste a un processo di depurazione, per cui il moto della danza tende inevitabilmente a dissolversi in puro richiamo luminoso e dinamico, e in una colta ricognizione del rapporto fra spazio e figura, dove il riferimento temporale si scioglie in un’indeterminatezza sospesa. E il resto è solo musica.
Paolo Levi