Mats Bergquist – Iconostasi
L’artista svedese Mats Bergquist parte da supporti lignei e con un lungo processo di sottilissime stratificazioni materiche ottiene volumi che si presentano con superfici concave o convesse.
Comunicato stampa
La Raccolta Lercaro, in collaborazione con la Galleria San Fedele di Milano, presenta la mostra Mats Bergquist. Rest, a cura di Andrea Dall’Asta SJ ed Elena Dal Molin, aperta fino al 22 aprile 2019.
L’artista svedese Mats Bergquist parte da supporti lignei e con un lungo processo di sottilissime stratificazioni materiche ottiene volumi che si presentano con superfici concave o convesse. La consistenza fisica dell’opera è quindi dovuta a un lento e progressivo gesto di sovrapposizione di materia (colle, gesso, pigmenti e tecnica ad encausto su legno e in seguito su tela), fino a quando il piano dell’oggetto risulta liscio e perfettamente levigato. La superficie non presenta alcun tipo di segni, di forme imitative o naturalistiche. A una prima impressione sono spazi di “vuoto”.
Altre volte vi è la presenza di oggetti che si manifestano attraverso forme altamente simboliche come uova, in questo caso ottenute attraverso l’antica tecnica giapponese raku. Le sue sculture, ordinate secondo posizioni precise ma di cui ignoriamo la regola, assumono un perfetto equilibrio e una profonda armonia, in una continua dialettica tra dispersione e ricongiunzione. Il tempo appare protagonista: l’opera nasce da una progressiva stesura di materiali, come nelle icone antiche. Al supporto ligneo, con la sua accurata levigatura, con la successiva sovrapposizione del telo di lino a compensazione dei movimenti del legno, con la stesura del gesso sul quale è inciso il disegno, con l’applicazione del fondo oro, con le stesura dei colori ottenuti da pigmenti minerali e vegetali, si giungeva alla definizione dei contorni, per terminare con le lumeggiature. Era un vero e proprio cammino che segnava non soltanto un percorso temporale dei gesti, ma un viaggio dell’anima che riconosceva gradualmente l’apparire dell’eterno, come se dall’interno dell’icona emergesse il divino che irrompe nel qui e ora della nostra storia.
Se la teologia dell’icona fa emergere la luce, in quanto presenza del divino che illumina e trasfigura ogni realtà umana, anchele opere di Bergquist sembrano fondarsi sulla luce. Contemplando quelle immagini senza immagini, restiamo in attesa, nel silenzio, come se le superficie dischiudessero una promessa di una rivelazione, quasi fossero cortine, veli o diaframmi in procinto di schiudersi.
In questo caso, il rimando appare il suprematista Kazimir Malevich, nel suo intento di realizzare le icone del tempo a lui contemporaneo, attingendo al cuore della spiritualità russa. Di fronte alle opere dell’artista svedese, come non ricordare il quadrato bianco su fondo nero? Nero e bianco: i due colori che esprimono per l’artista russo il massimo della tensione cromatica. In Bergquist nero e bianco, invece di sovrapporsi sembrano piuttosto richiamarsi, come se l’uno non potesse esistere senza l’altro. Se il nero e il bianco sono per Malevich i colori relativi alla forma e all’energia, per Bergquist i due colori sembrano piuttosto incontrarsi nella luce che s’irradia e si diffonde dalle superfici perfettamente levigate. Così se il nero è il richiamo alla terra che si apre sul divino, il bianco, come nelle antiche icone orientali, è emanazione stessa di Dio, sul quale lasciamo le nostre impronte, come quando camminiamo sulla neve.
Grazie a una tecnica tanto raffinata quanto sofisticata, la luce non sembra dipinta, quanto piuttosto captata, meglio fissata direttamente sul supporto, come se fosse attratta dalla superficie per poi propagarsi nello spazio. Il lavoro di Bergquist sembra dunque una splendida riflessione su una luce che va contemplata in un silenzio siderale, perché nella luce noi possiamo immergerci, vivere, sprofondare. È dunque un lavoro sulla trascendenza della luce e della sua capacità di entrare nella nostra vita.