Matteo Montani – Racconto Rosso

Informazioni Evento

Luogo
GALLERIA L'ATTICO - FABIO SARGENTINI
Via Del Paradiso 41, Roma, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

dal lunedì al venerdì dalle 17 alle 20

Vernissage
18/11/2016

ore 19

Artisti
Matteo Montani
Generi
arte contemporanea, personale

“Racconto Rosso”, personale di Matteo Montani a L’Attico.

Comunicato stampa

Diario Rosso

Ultimi giorni di aprile.

E’ in corso un vernissage a L’Attico. Facendosi largo tra la gente lui mi porge il catalogo della personale appena inaugurata a The Elkon Gallery di New York. Sulla copertina del catalogo spicca a tutta pagina la riproduzione di un suo quadro dai colori cangianti, caleidoscopici, che rapiscono l’occhio. Una pittura che rasenta lo sfarzo. E’ il momento buono per Matteo di farsi avanti, forte del successo della mostra americana.
Con tenera audacia mi chiede:
“Mi faresti una seconda personale dopo quella di dieci anni fa?”.
Puntando dritto il dito sulla copertina del catalogo gli rispondo:
“D’accordo, ma devi fare meglio di così”.
Messaggio cifrato: Matteo, lascia stare la bella pittura per il momento e rimettiti a scavare dentro te stesso. E’ questa franchezza, del resto, che lui si aspetta da me e con la quale si confronta nel lavoro.

Estate piena, tra luglio e agosto.
Mi giungono periodicamente con la posta elettronica le immagini che Matteo va dipingendo e ne constato i potenti progressi. Ci rimugino su. Via via che vengo aggiornato mi appunto alcune considerazioni sul quadernetto. Eccole.
La poetica di Montani si fonda su un empito verso l’alto. Nel suo percorso pittorico egli è sempre stato a caccia del cielo: lo fa suo, lo smarrisce, lo riconquista. La difficoltà dopo molto tempo sta per l’appunto nel ritrovare il cielo perduto.
Per riuscire nell’intento il pittore ha dovuto calarsi nella nerità notturna, infinita, dove giace inabissato il dolore altrettanto infinito del mondo e suo proprio. La linea dell’orizzonte che s’intravvede è già una promessa di paesaggio…
Si configura sempre più lo skyline di un magma lavico in ebollizione. Cosa rappresentano qui le piccole guglie, i pinnacoli cari al pittore, se non lingue di fuoco che si levano e ricadono di continuo, come animule in cerca di redenzione?
In questi ultimi quadri, nella parte ascrivibile al cielo, si manifestano forme curvilinee, sinuose, mai viste prima d’ora. Scaturiscono da una pennellata inedita, tonda, fluida. Sono una schiera, un coro che inonda il cielo di rosso e lo fa risuonare. Mi domando: chi sono, cosa annunciano?
C’è sentore di sacro.
Viene in mente il suono rosso di Kandinskij. Un rosso che non evoca il sangue e tuttavia trasmette a noi il dramma del dolore.

Settembre inoltrato.
E’ tempo di una mia visita a Nepi dove Matteo ha lo studio per scegliere definitivamente i quadri della mostra. Li conosco già dalle immagini inviatemi durante l’estate. Ma un incontro ravvicinato con la pittura nella fucina dove nasce è sempre emozionante.
Mi propone al telefono:
“Ti vengo a prendere in macchina al solito posto?”
Non c’è bisogno nemmeno di nominarlo il posto, è lo stesso ponte sul Lungotevere di dieci anni fa quando ci davamo appuntamento per la prima mostra. E’ bello riscoprire le vecchie abitudini. Tra noi il fil rouge non si è mai spezzato.

Roma, 06/11/2016 Fabio Sargentini

Marco Tonelli

REDSHIFT

“Gli estremi dello spettro visibile sono il rosso per le grandi lunghezze d’onda e il blu all’estremo opposto, quindi per una sorgente in avvicinamento si ha uno spostamento verso il blu e per una che si allontana uno spostamento verso il rosso”, ha scritto l’astrofisico Paul Davies, definendo in modo sintetico l’effetto di redshift (ovvero appunto lo “spostamento verso il rosso”).
Ho pensato a ciò osservando le ultime opere rosse di Montani perché dieci anni fa erano esattamente dalla parte opposta dello spettro, cioè blu, e se torno con la memoria ai suoi precedenti frottage di carta abrasiva sui muri di edifici il redshift sembra aver attraversato galassie distanti da noi anni luce.
In dieci dei nostri anni solari Montani dipingendo ha sviluppato effettivamente l’intero spettro delle frequenze: blu, poi bianco, poi oro e adesso rosso, con vari momenti intermedi di interazioni non fondamentali.
Ha insomma apparentemente viaggiato nello spazio della sua pittura allontanandosi e questa odissea cromatica assume ora finalmente tutto il fascino di un redshift di tipo mentale e visivo, appunto perché è un prendere sempre più le distanze. Per arrivare dove?
Il 19 ottobre 2016 fallisce l’atterraggio della sonda ExoMars, mentre il lander Schiaparelli cadeva in picchiata su Marte in seguito ad un problema di apertura del suo paracadute, interrompendo ogni comunicazione con la centrale di controllo sulla Terra
Montani non ha certo in mente Marte mentre stende il suo vento rosso, le sue stalagmiti, le sue onde ghiacciate, i suoi mari ondulati e appuntiti, però ce l’ho in mente io che osservo queste seducenti turbolenze e le loro lontananze, scie di vertigini, brividi ed epifanie che il pittore deve aver senza dubbio provato o da cui è stato colto di sorpresa perché si è messo nelle condizioni di essere colto di sorpresa.
I vari canyon, vulcani, crateri, burroni, caverne di Marte hanno assunto nei decenni nomi esotici, mitologici e antichi, quasi a evidenziarne un’epica e siderale lontananza: Hellas Planitia, Ma’adam Vallis, Arsia Mons, Valles Marineris, Syrtis Major, Benacus Lacus, Elysium Planitia, Cerberus Palus, Gorgonium Sinus, Olympus Mons…
Sostando davanti questi dipinti assistiamo a nuove stagioni di un altrove che si fa qui, ora, dispiegandosi in una sanguigna e vitale esuberanza. Siamo di fronte a passaggi di una pittura di cui vediamo il miracolo della loro trasfigurazione verso una notte assoluta. C’è quasi un momento di sublime tensione, di danza al limite di un bordo d’universo fatto di increspature e di micidiali attrazioni gravitazionali e non più di eterei, lunari, bizantini e distesi paesaggi. La visione di Montani è ora di dissidio e lotta, marziale tensione, pungente, graffiante e allo stesso tempo morbida, lasciva: le oscillazioni del rosso sono quelle a più bassa frequenza e a più alta lunghezza d’onda, lente e lunghe carezze prima di un guizzo violento. Sembra quasi che Montani senta le oscillazioni dei colori adattandole di volta in volta a vere e proprie iconografie d’energia.
Il cosiddetto “pianeta rosso” è tale perché ricco in superficie di ossido di ferro. E di grandi quantità di silicio, come la grana della carta abrasiva, composta di carburo di silicio
Alcune delle ultime opere di Montani sembrano come separate, aperte e strappate da opposte attrazioni (gotiche elevazioni e asciutte spinte verticali si dirigono verso gravide onde composte di stringhe orizzontali di energia), quasi presagendo o percependo quell’orizzonte, quella angoscia necessaria, oltre il quale sarà solo Nulla (o assoluto Altrove). Sono come maree e venti rossi che combattono per non essere inghiottiti dal grande Vuoto, dal nero assoluto, dal tempo dei tempi, che assorbe intere galassie di materia, di gravità, di pittura.
In prossimità di un buco nero e del suo orizzonte degli eventi, la materia subisce forze tali che la alterano drammaticamente, la accelerano, la deformano, prima di scomparire alla vista. Al di là di quel limite, decade irreparabilmente ogni concetto di tempo e di spazio, almeno per come lo abbiamo finora esperito
Il mistero di una pittura del genere realizzata in epoca contemporanea sta proprio in una forma di restituzione di ciò che s’è perso o che sta sensibilmente perdendosi al di là o in prossimità di un fatidico orizzonte. Il punto è che ciò che sembra allora un allontanamento da noi, un redshift, per l’artista rappresenta probabilmente un avvicinamento alla sorgente della sua ispirazione, secondo l’immagine e la teoria della “prospettiva rovesciata”. In conclusione, forse è solo l’artista colui che può mostrarci qualcosa di ciò che accade oltre il tragico (per noi) orizzonte della scomparsa.
La fine sarà solo l’inizio dunque, come l’inizio è il preludio di ogni fine?
“Though I’m past one hundred thousand miles, I’m feeling very still and I think my spaceship knows which way to go” (“Malgrado sia lontano centomila miglia, mi sento molto tranquillo e penso che la mia astronave sappia dove andare”): cantava nel 1969 David Bowie in Space Oddity