Matthias Schaller – Il capolavoro
Mostra personale.
Comunicato stampa
Matthias Schaller è laureato in antropologia visiva. E fa il fotografo. C’è una relazione tra ciò che ha studiato e ciò che è diventato? Descrivendo il suo lavoro ormai consolidato molti dicono di un’estetica astratta, votata all’indeterminazione seriale del contenuto delle immagini. Come se il fattore soggettivo evaporasse per consentire la migliore definizione del contesto in cui l’esistenza materiale si palesa prima e dopo, mai durante, poiché qualunque presenza in carne e ossa sarebbe d’intralcio alla messa a fuoco del concetto da inquadrare. C’è però un tratto che distingue il lavoro di Schaller da quello dei suoi coetanei, tutti cresciuti nella famiglia allargata dei mitici coniugi Becher, e lo si può trovare in un particolare punto di vista allusivo sui soggetti ripresi. Il discorso indiretto e la rinuncia ad ogni forma di personalizzazione funzionano nel racconto di Schaller come gli strumenti classici dell’osservazione antropologica, laddove in questione c’è il vedere quello che vedono gli altri nel modo loro, magari molto diverso dal nostro, per poi scoprire che è la visione in sé uno dei tratti comuni dell’essere umani. Così le tavolozze diventano “capolavori” universali agli occhi di chi conosce la storia dell’arte e i quadri più famosi degli artisti che quegli impasti hanno creato e adoperato fin quasi a specchiarsi gli uni negli altri. Ma il gioco di riconoscere un autore dai resti colorati, dalle sfumature, dagli spessori cromatici, per i più esperti addirittura dalle distanze tra le diverse mescole lasciate ad essiccare resta un esercizio esoterico da cartografi della pittura. C’è invece un aspetto ulteriore che si può cogliere nelle opere di Schaller, sapendo poco o niente, magari solo l‘essenziale, degli artisti e dei quadri che hanno avuto origine nella perlustrazione quotidiana e ossessiva dei colori su quelle tavolozze. Chiunque abbia maneggiato un paio di testi di antropologia e si sia magari un po’ appassionato alle storie di popoli sperduti con lingue e usanze lontanissime dalle nostre, per quanto la lettura sia stata orientata da una scrittura scientifica e neutrale, non potrà non ricordare lo stupore e l’interesse che si prova al cospetto di forme di vita estranee e misteriose. Proprio questa umana sensazione sembra voler risvegliare Schaller: un interesse partecipante verso la forma di vita particolare che è l’artista, immaginato nel suo atelier, mentre mescola i colori, pennella, sporca, ripensa, riprova, le cui tracce biologiche sono conservate ed esposte sulla tavolozza, come resti di esistenze creative impastate su una superficie che resta indefinita e opaca. Diceva Roland Barthes che l’essenza della fotografia è di essere al tempo stesso constatativa ed esclamativa, inconcepibile confusione tra realtà (ciò è stato) e verità (esattamente questo). La fotografia della tavolozza dunque diventa molto più di una metafora dell’arte, non più e non solo l’immagine fascinosa che lascia intravedere il quadro che avrà origine da lì. L’antropologo Schaller sta mostrando l’idea che la lingua dell’arte è una cosa reale, che si fa nel tempo tra accidenti vari, che è umanamente vera in ogni sua manifestazione. La tavolozza ammicca, allude al quadro, anzi è già il quadro. E la fotografia il luogo in cui si fa confusione tra rappresentazione e percezione, perché è lo scatto che sospende i confini tra vero e reale. Ecco spiegata l’ambizione artistica del fotografo laureato in antropologia: che la verità dell’arte possa essere reale e sorprendente almeno negli occhi nuovi di chi guarda il mondo senza troppi pregiudizi.