Mattia Moreni – Fenomenologia e regressione
Un’ampia antologica che parte dalla produzione dell’artista parmense degli anni ’50 dominata dallo stile Informale passando per i “cartelli” degli anni ’60 e la serie delle “angurie”, fino agli autoritratti degli anni ’90 ai quali applica protesi artificiali, tubi e sensori.
Comunicato stampa
Mattia Moreni nasce a Pavia nel 1920 e frequenta per un breve periodo - tra il '40 e il '41 - l'Accademia Albertina di Torino, senza portare a termine gli studi; nel 1947, quando il linguaggio post cubista varca le Alpi e pone fine ai naturalismi degli anni precedenti, persiste ad affrontare temi che possono sembrare di modesto sapore domestico, riguardanti figure femminili sorprese nel chiuso delle loro stanze, immesse in gabbie robuste, falcidiate di inutili dettagli, aggredite da fendenti rapidi e rabbiosi.
Sulla diffusa grammatica post cubista, Moreni inserisce stoccate rapide e guizzanti, tributo al suo maestro Luigi Spazzapan, ovvero le figure non giacciono inerti ma aspirano ad afferrare l’ambiente.
Moreni e Vedova sono i più giovani del Gruppo degli otto, forse per questo sono i più intraprendenti, i più sperimentali ed il loro destino comune è quello di superare il post cubismo privilegiando una geometria a vasti piani nella quale qualche meccanismo stravagante ed irregolare fatto con pezzi oscillanti nel vuoto che sembrano chiedere di essere incastrati, imbullonati gli uni sugli altri.
E’ una fase esaltante per Moreni, che mette a punto alcuni requisiti che poi non lo abbandoneranno più, come le stesure compatte che corrono verso un abisso ma non scivoleranno mai in un fiacco monocromo, ci sarà sempre un guizzo, un palpito a rianimare quelle stratificazioni. Sono forme ascrivibili ad un mondo organico, ricordano pale che potrebbero mettersi a vorticare nello spazio, come ventilatori a grande potenza e velocità.
Nei primi anni cinquanta Moreni sente anche il bisogno di fare un bagno salutare nel primordio, vuole ristabilire un contatto con la “terra madre”, con i valori del germinale.
L’informale domina e gli statunitensi Pollock e De Kooning, rappresentano i casi più violenti e frementi, in Europa Michel Tapiè con la sua impetuosa “Art Autre”, Parigi e soprattutto la galleria Rive Droite (sotto il controllo di Tapiè) diviene il tempio di tutte le prove ad alta temperatura, Moreni vi asside impetuosamente, trionfalmente accanto ai comprimari europei: Cobra, Asger Jorn e Karel Appel e naturalmente Fautrier e Dubuffet.
Dal 1956 al 1966 vive a Parigi in una vecchia sede del Moulin Rouge. Allestisce una sala personale con nove tele alla Biennale di Venezia del 1956 (vi esponeva senza interruzioni dal 1948 e vi esporrà ancora nel '60, '72 e alla mostra del Centenario nel '95).
Decidendo, in seguito, di rientrare nel nostro paese, Moreni non sceglie di accasarsi in capoluoghi autorevoli, ma decide di accesarsi in una Romagna fuorimano e dopo un palazzo gentilizio, ma in rovina, opta per una fattoria da contadini in una località detta delle “Calbane vecchie”. Qui, la vicinanza con la fertile terra di Romagna lo induce a seguire dal vivo un processo di gestazione, di maturazione ed osserva che la vischiosa e scomposta vegetazione di tralci e fronde è fatta per sfociare nei frutti.
Così la vicinanza con le “cose” lo induce a lasciarsi alle spalle le soluzioni troppo informi e Moreni lungo gli anni sessanta non vuole più che la fiammata informale arda fine a se stessa, allora ecco apparire l’invenzione più caratterestistica di questo momento “la serie dei cartelli” minuscole tavolette di legno, opposte alla furia degli elementi, “come gettare qualche oggetto entro il flusso della lava”.
Ben presto, Moreni sposta la sua attenzione su una specie del tutto naturale, e spuntano (dal suolo) sulla tela “le angurie” gusci perfetti, ceramicati, che quasi aspirano a sollevarsi ad uno stato di prodotti artificiali.
Da quei gusci attraverso squarci si intravvede un interno, informe, vischioso, risucchiante.
Forma e informe sono sempre pronti a contendersi, a rimbalzare l’uno nell’altro. Ma per Moreni la fenditura che si apre nelle angurie è assimilabile al solco che nella donna introduce verso l’interno, verso l’utero, dove si crea la nostra vita.
Non è un gesto sacrilego o impertinente, ma al contrario un atto di omaggio al luogo da cui zampilla la vita allo stato puro. L’anguria ostenta una realtà “double face” un’esterno lucido, ceramicato, levigato ad un interno poroso, polposo, il bisticcio che Moreni si porta dietro da sempre il geometrico-razionale ed irrazionale.
Negli ultimi anni di vita, ecco avvenire nella sua arte un enorme, incredibile, mutamento; scopre che la natura non agisce da sola, che i frutti della terra non nascono e non si sviluppano spontaneamente ma sono sollecitati da tanti accorgimenti tecnologici. Moreni scopre l’intervento dell’artificiale, della tecnologia che inserendosi sul prodotto naturale, crea un ibrido, e ciò non riguarda solo gli organismi inferiori ma anche l’uomo.
Affascinato dal suo stesso volto crea una serie di autoritratti sui quali applica protesi artificiali, tubicini, sensori, strumenti di prelievo dati o di stimolazioni nervose. Questi idoli profani, questi stregoni, sono accompagnati da una scrittura, vergata con impeto, con modi precari, del tutto personalizzata.
In una operazione del genere, Moreni mette la sua perfetta maestria nello stendere gli sfondi, omogenei ed affidati ad una cromia intensa, luminosa, mai noiosa, siamo di fronte a verdi primaverili a rosa shocking, a bruni che non attendono, ma fanno brillare la superficie.