Maurizio Cattelan – Kaputt primavera

Informazioni Evento

Luogo
FONDATION BEYELER
Baselstrasse 101, CH-4125, Riehen, Switzerland
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al
Vernissage
08/06/2013
Artisti
Maurizio Cattelan
Generi
arte contemporanea, personale

Mostra personale

Comunicato stampa

Maurizio Cattelan
Kaputt Primavera
(1)
Istinto di sopravviv enza
“Non avete mai pensato” dissi, “che il paesaggio svedese è un paesaggio
di natura equina?”
Il Principe Eugenio sorrise: “Conoscete” domandò “i disegni di cavalli di
Carl Hill, gli hästar di Carl Hill? Carl Hill” aggiunse, “era pazzo: credeva
che gli alberi fossero cavalli verdi”.
“Carl Hill” dissi, “dipingeva i cavalli come fossero paesaggi. (…)”
Mi sono imbattuto in questo dialogo leggendo Kaputt, un romanzo
scritto da Curzio Malaparte. I personaggi coinvolti nella conversazione
sono lo stesso autore e il Principe Eugenio di Svezia. La prima parte del
romanzo si intitola “I cavalli” e basterebbe da sola a capire i cavalli di
Maurizio Cattelan. Malaparte vi scrive di cavalli in modo magico, e fa
venire più volte in mente tutti i cavalli che Cattelan impiega nelle sue
opere. Soprattutto la cavalla putrefatta in una pozza di fango ricorda
Untitled (Senza titolo, 2009), il cavallo di Cattelan con un palo conficcato
nel ventre gonfio e la targhetta recante l’inscrizione “INRI”. Oppure i
cavalli che durante la Seconda guerra mondiale, in Finlandia, rimasero
intrappolati nelle acque congelate del lago Ladoga, con soltanto le teste
che spuntano fuori, gli occhi raggelati dal terrore. Malaparte racconta
delle loro teste congelate, che erano usate dai soldati come panche
sulle quali sedersi a fumare sigarette e pipe. E del tremendo fetore dei
corpi putrefatti quando arrivava la primavera, il ghiaccio si scioglieva
e i cadaveri rigonfi dei cavalli iniziavano a galleggiare sulla superficie
del lago. Per quanto suoni raccapricciante e orrenda, la scrittura di
Malaparte è in realtà molto simile al linguaggio visivo di Cattelan, che
si colloca a metà strada fra il magico e il poetico, il brutale e il lirico.
Il Principe Eugenio, ancora una volta, pare descriverlo con semplicità,
ma lo fa alla perfezione: “La guerre même n’est qu’un rêve”. La guerra
stessa non è altro che un sogno. Il lavoro di Maurizio Cattelan non è altro
che un sogno – forse inquietante, ma pur sempre un sogno.
Il titolo di questo saggio è “Kaputt Primavera”. Esso si riferisce sia al
romanzo di Malaparte e alla sua descrizione della primavera sulle sponde
finlandesi del lago Ladoga, sia, per quanto appaia strano, alla Primavera
di Sandro Botticelli. Impossibile che esistano altre due immagini più
distanti l’una dall’altra come quella delle teste congelate di cavalli che
emergono dal ghiaccio nel mezzo di una guerra brutale e la visione
allegorica di Botticelli, così melensa, eccessiva e decorativa. Eppure,
mi pare che entrambe convergano perfettamente nell’immagine dei
cinque cavalli che penzolano senza testa da una parete della Fondation
Beyeler. Paura, disperazione, tragedia e allegoria sono emozioni che si
ritrovano combinate nella sensibilità di Cattelan. Una sensibilità che lo
ha condotto lontano, dall’essere un semplice asino al sentirsi un cavallo
intrappolato. Come ho detto, il romanzo di Malaparte ci basterebbe per
comprendere l’opera di Cattelan. Potrei perciò smetterla qui di scrivere.
Mi cimenterò invece in un’improbabile competizione con Malaparte
percorrendo le tappe di un cammino che mi conduce ai cinque cavalli di
Cattelan. Sarà una cronologia personale con riferimenti affatto personali,
ben lungi dall’essere una trattazione erudita sull’arte di Cattelan. Parlare
di Cattelan in registro accademico sarebbe per me un ossimoro. La
mia storia non è lineare e si divide grossomodo in cinque brevi capitoli,
ciascuno dei quali tratta di un’opera d’arte che credo ci permetterà di
capire meglio la sfilata dei cinque cavalli sospesi di Cattelan. Questi
cavalli sono, per certi aspetti, diversi da tutti gli altri che in passato
l’artista ha già presentato, uno alla volta. Il cavallo solitario simboleggia il
tentativo di sfuggire alla solitudine, un sentimento che Cattelan sempre
cerca di combattere. Il salto, lo sforzo è delirante eppure eroico. I cinque
cavalli trasformano la delusione in panico, fuggono precipitosamente e
lo sforzo individuale converge in una folla febbrile. Siamo testimoni di
un esodo, non di una ricerca di libertà. Come i cavalli di Malaparte, che
in Finlandia scappano dal bosco in fiamme per finire nel lago gelato,
nemmeno quelli di Cattelan cercano la libertà, bensì lottano per la
sopravvivenza.
(2)
Cinqu e liv elli di storia
Tramonto invernale con cavallo che si impenna e cavaliere è un dipinto di
Carl Fredrik Hill (1849–1911), l’artista svedese citato sopra. Non so dove
si trovi questo quadro e nemmeno quando l’artista lo eseguì. Comunque
sia, la posizione del cavallo è tutto ciò che ci serve di sapere, e il cielo si
trasforma nel muro di Cattelan: un muro che è il confine fra l’inverno e la
primavera, fra la morte e, di nuovo, la vita. Puoi interpretarci tutto quello
che vuoi o niente affatto. È soltanto una coincidenza? Ma allora, se l’arte
non è altro che coincidenza, perché preoccuparsene? Maurizio Cattelan
vuole destabilizzarci e, a modo suo, ci riesce. Il muro è anche il confine
fra ciò che è storico e ciò che è ordinario, fra il souvenir e il trofeo, la
memoria e l’aneddoto. Tutti questi elementi cospirano lungo tale confine
ovvio eppure invisibile. Cattelan cancella il tramonto, il cavaliere se ne è
andato, resta soltanto il cavallo che si impenna, decapitato o forse no.
Stiamo guardando gli animali da sotto la lastra di ghiaccio, aspettando
pazientemente che la primavera arrivi a liberarci.
1994. Nel comune di Vallon-Pont-d’Arc, nella Francia meridionale, lo
speleologo Jean-Marie Chauvet scopre in una grotta alcune delle più
antiche pitture murali della storia dell’umanità. Una fra le scene più
famose che vi sono dipinte rappresenta quattro teste di cavallo. È come
se Cattelan facesse un viaggio indietro nel tempo. 32.000 anni indietro,
alla ricerca delle teste dei suoi cavalli. 1994. New York. Daniel Newburg
Gallery. “Warning! Enter at your own risk, Do not touch, Do not feed, No
smoking, No photographs, No dogs, Thank you.” (“Attenzione! Ingresso
a proprio rischio e pericolo, Non toccare, Non dare da mangiare agli
animali, Non fumare, Non fare fotografie, Cani non ammessi, Grazie”).
Questo è il titolo della prima mostra newyorkese di Cattelan. Un fiasco.
L’artista racconta che allora si sentiva come un asino perché due suoi
precedenti progetti erano stati rifiutati. Egli vi espose allora l’asino, il
cugino del cavallo. I cinque cavalli sono forse il compimento di quel
lungo insuccesso iniziato quasi vent’anni fa. La galleria di New York era
la grotta di Cattelan. La prima parete rocciosa contro la quale egli sbatté
la testa, e dove, la testa, gli sarebbe piaciuto nasconderla o seppellirla.
L’asino non è abbastanza degno o non è pronto per essere sacrificato
al muro della paura.
Venezia, cattedrale di San Marco. Sulla sua facciata le copie di quattro
cavalli in rame. Gli originali sono protetti all’interno della basilica.
Quattro cavalli. Come quelli della grotta di Chauvet. Sembra che
all’appello ne manchi sempre uno. Dov’è il quinto cavallo? I cavalli di
San Marco fecero il loro ingresso in Laguna nel 1204 in seguito al
Sacco di Costantinopoli, prima del quale vi erano stati trafugati dalla
Grecia. Non si sa con certezza chi li scolpì, forse Lisippo. Nel 1797,
Napoleone li confiscò e li fece collocare in cima all’Arco di Trionfo del
Carosello. Essi furono restituiti a Venezia nel 1815, dopo la battaglia
di Waterloo. I cavalli veneziani hanno un aspetto agitato, sentono di
essere al posto sbagliato. Costantinopoli, Venezia, Parigi… non sono a
casa, appartengono a un altro luogo, su un’isola greca. La loro funzione
originaria non era quella di celebrare guerre, vittorie imperiali o sconfitte.
I cinque cavalli di Cattelan condividono lo stesso sentimento con questo
più nobile quartetto. Appartengono a un altro luogo. L’arte strappata dal
suo contesto originale non raggiunge mai il proprio scopo. L’opera di
Cattelan dà l’impressione di essere in qualche modo sradicata e, come
i cavalli di San Marco, emerge rafforzata da tale condizione, lo stato di
disagio la vivifica.
1800–1803. Jacques-Louis David, Bonaparte valica le Alpi. Se è vero
che nel 1799 Napoleone traversò le Alpi in sella al suo bianco stallone
arabo, certo è che i quattro cavalli di San Marco le avevano valicate già
due anni prima. David eseguì cinque versioni di questo dipinto. La forza
della sua composizione non risiede tanto nel ritratto del Primo Console e
futuro Imperatore, bensì nell’equilibrio del suo cavallo, o meglio nella sua
resistenza a scalare la parete rocciosa del passo del Gran San Bernardo.
Napoleone non si sta ritirando, bensì procede nella sua conquista
dell’Europa. Cosa fa Cattelan? Si sta ritirando oppure avanza? I cavalli
della grotta di Chauvet, i cavalli di San Marco, il cavallo di Napoleone
e ora il cavallo e i cavalli di Cattelan. Il viaggio conduce attraverso un
complesso panorama – delineato dalla civiltà europea che, da un lato,
si fonde con una radice paleolitica e, dall’altro, scaturisce da Bisanzio
o da un posto ancora più lontano in Asia – e ricorda i leggendari cavalli
di Attila. Dove porta o dove finisce tutto questo, o dove comincia e
ricomincia ancora?
Roma, 1969. Galleria l’Attico. Dodici cavalli vivi fanno il loro ingresso
nello spazio espositivo. Essi saranno il soggetto della mostra di Jannis
Kounellis. Il poeta surrealista André Breton espresse una volta l’idea di
rendere possibile l’impossibile, come far sì che i Tartari abbeverassero
i propri cavalli alle fontane di Versailles. È proprio ciò che fa Kounellis:
rendere possibile l’impossibile. In un garage, la storia attraversa
simultaneamente molte frontiere. Ed è qui che la nostra storia si avvia
alla sua conclusione. Dalla brutalità di Malaparte e del suo lago Ladoga
con i cavalli morti e terrorizzati, al gesto glorioso di un corteo di cavalli
vivi che a Roma entrano uno spazio industriale. Dalla devastazione
pura alla celebrazione pura. Cosa rimane ora di tutto questo se non i
cinque cavalli di Cattelan, che non sono né vivi né davvero morti, ma
sospesi in uno stato di meraviglia, che attraversano la devastazione,
violano la celebrazione, e non finiscono da nessuna parte. Che cercano
e si sforzano di trovare un’altra dimensione, un altro spazio, un’altra
era, ben più lontana di qualsiasi cosa che abbiamo immaginato finora.
Nel film del regista Henri-Georges Clouzot Vite vendute (Le Salaire de
la peur, 1953), il personaggio di Mario – interpretato da Yves Montand
– rievoca insieme all’amico Jo (Charles Vanel), gravemente ferito, il
ricordo di un quartiere di Parigi nei pressi della rue Galande. I due
parlano di uno steccato. “Non ho mai saputo cosa vi si nascondesse
dietro”, si fa sfuggire il moribondo fra due rantoli di dolore. “Niente”, gli
risponde Mario. Come se non l’avesse sentito, Jo gli chiede di nuovo:
“Cosa c’era dietro lo steccato?” – “Nulla, ti dico, nulla.” – “Non c’è
niente”, ripete l’uomo esalando l’ultimo respiro, gli occhi spalancati,
come se vedesse già dall’altra parte.
In piedi sotto i cavalli di Cattelan lo spettatore dovrà rivolgere ai poveri
animali la stessa domanda, prima che sia troppo tardi.
“Cosa vedete dall’altra parte del muro?”
“Niente”, o forse: “Soltanto un asino”.
(Traduzione dall’inglese di Valentina Locatelli)
Maurizio Cattelan, Untitled, 2007, Foto: Axel Schneider, Courtesy Maurizio Cattelan’s Archive
Sandro Botticelli, Primavera, ca. 1482
© 2013. Foto Scala, Firenze, Courtesy Ministero Beni e Att. Culturali