Melancholia
Mostra collettiva.
Comunicato stampa
MELANCHOLIA
Mathias Balzer, Serge Brignoni, Lorenzo Casanova, Ugo Cleis, Carlo Cotti, Felice Filippini, Martin Lauterburg, Valter Luca Signorile.
WUNDERKAMMER LANGENTHAL
Selezione di porcellane della Manifeattura Langenthal dal 1900 al 1970.
9 febbraio – 19 aprile 2020
Vernissage: sabato 8 febbraio 2020 alle 17:30
Cosa sia una mostra d’arte, forse non lo definiscono nemmeno più i curatori, non i critici, né tantomeno gli artisti, troppo intenti a creare mondi illusori e moduli esistenziali combinati, quasi fossero, qualcuno di loro, costantemente in crisi e intenti a inventare una sorta di “musica a programma” del tutto personale e al di fuori dei luoghi comuni.
Un simile approccio creativo, secondo noi, dovrebbe adottare anche i curatori e renderli soggetti all’arte e al lavoro, anziché protagonisti di un universo a tratti sempre troppo istituzionale. Per la libertà di questo fantastico mondo in grado di inventare altri mondi impossibili e isole inesistenti, non v’è prezzo; e fare il curatore piuttosto che l’impiegato, ecco che questa potrebbe essere la via da seguire.
MELANCHOLIA intende seguire queste linee guida dall’impronta randomica e sperimentale, pur parlando – anche – di storia dimenticata, le cui cause o concause potrebbero essere fortemente legate alla politica culturale. All’interno di questa sorta di permanente e pernicioso stato di tristezza, che domina l’esistenza umana e avvolge tutto ciò che fu, ecco che il male di vivere rimette in relazione l’esistenza con l’esistenzialismo, ridefinendo consapevolemente e contemporaneamente il concetto di temporalità e di passati rimossi.
Nell’epoca post-contemporanea, post-produttiva o post-qualcosa, abbiamo assistito a fenomeni di sostituzione di valori artistici, un tempo consolidati e indispensabili, con il concetto dominante di strategie attorno all’arte, laddove anche questa importante geografia inutile – il luogo d’arte – ha lentamente messo le proprie radici dentro il mercato dei musei. In ambito artistico e di storia dell’arte vi è stata quasi una normale e consequenziale rimozione di tutta una serie di punti di riferimento, che, in passato, hanno costituito quelli di forza di una cultura o addirittura di uno spazio per la contemplazione della creazione artistica, la cui definizione si riconduceva a contesti nazionali, geografici e territoriali ben precisi; entro dei confini, quindi.
È melancolico costatare come in pochi decenni il processo di dimenticanza delle proprie radici storiche, e del conseguente spostamento di molti artisti, della loro opera e addirittura della propria generazione, ci apra oggi – quale fosse, questo, un naturale atteggiamento epocale di studio e di resistenza – spiragli di ricerca e recupero di autori, che le giovani generazioni non (ri)conoscono, precludendo loro anche la ricerca.
L’esposizione mette in mostra opere di autori, che hanno segnato, in maniera forte o minore, un’epoca all’interno di un luogo, e che sono stati anche dimenticati, come se il loro lavoro – che rimane un tassello importante nella costruzione di un corpo storico – non fosse più ritenuto tale o vitale per la nostra riconoscibilità storico-geografica all’interno dei suoi confini.
Oggi, più di prima, ciò che vale è ciò che costa; e per valere è necessario che l’opera d’arte e il suo creatore abbiano attorno a sé un loro mercato. La qualità non è più sufficiente. Musei e fondazioni pubbliche e private negli ultimi anni hanno creato una vera e propria politica d’investimento a tassi d’interesse variabili. Chi non è sufficientemente redditizio finisce dapprima in un campo di raccolta e in seguito in un centro di smaltimento. Nel tempo delle discariche e delle varie nevrosi depressive della società in cui viviamo, le case d’aste diventano molto spesso il luogo, laddove recuperare i perdenti del mercato o chi non ha saputo cavalcare questa nuova forma di promozione culturale…, perché inviso al potere o perché fastidioso per qualche infastidito e stizzito curatore; o semplicemente – com’è spesso il caso – una modalità per ridare vita a opere extra-ordinarie di autori altrettanto importanti per la nostra storia. Negli ultimi anni perfino le case di vendita dell’arte hanno fatto il loro corso, passando il testimone a piccoli e sconosciuti antiquari di libri, carte, opere e quant’altro, che talvolta ridanno il sangue alla nostra innata curiosità creativa.
L’approccio di continua ricerca fuori dai canali rimetterebbe quindi in discussione il Museo come luogo dell’arte, della conservazione e della memoria; ma soprattutto della provocazione dialettica. Invece no. È redditizio e va politicamente di moda il clima? Evvai col clima e lo scioglimento precoce dei ghiacciai. Poi c’è quella dei flussi migratori? Ebbene sì, senza perdere né l’occasione, né il tempo, quindi, bisogna invitare autori del Quarto mondo, purché vengano da quei luoghi disintegrati e miserabili, non importa se vi si possa intravvedere l’ombra di una benché minima qualità professionale.
Sempre più spesso – e ciò, lo si evince dai numerosi interventi sulla stampa – si chiede di analizzare il fenomeno (peraltro già in crisi ma ormai entrato a forza nel mondo dell’arte) attorno agli influssi esercitati da determinate forme economiche e di mercato sulla cultura, e di accendere quanto prima un dibattito. Il mercato dell’arte ha creato mostruosi paradossi, laddove, per citarne uno, il profitto di qualcuno va a scapito di altri. Questo avviene oggi in ambito culturale e accademico.
E nell’istesso tempo la realtà ha superato l’arte; e di arte, forse, ci nutriremo sempre meno, se non nuovamente in qualche salotto buono.
Mario Casanova
Bellinzona, novembre 2019