Melissa Brown

Mostra personale.
Comunicato stampa
Nonostante insista sui soggetti inanimati, la natura morta è un genere pittorico tutt’altro che passivo. Lungo la storia dell’arte, è stata al servizio di messaggi etici ed edificanti, come nelle vanitas olandesi, ricche di allegorie sulla fugacità della vita e sull’impermanenza; o, ancora, il genere è stato precursore della rottura con la pittura tradizionale, con il collasso della prospettiva all’avvento del contemporaneo, presagito dalla sensazione di movimento data dalla luce che si posa sulla buccia di una mela. Gli artisti a un certo punto, attraverso questo moto, scoprirono che la natura morta, con la sua rappresentazione apparentemente oggettiva, era in realtà il mezzo ideale attraverso cui esplorare la vera controparte della realtà – il suo sostrato, i suoi difetti e i suoi contorni irregolari. Da qui proviene la mistica di Giorgio Morandi, la cui semplicità pittorica, fatta di pose fuori fuoco di oggetti quotidiani sui tavoli, dai volumi caratteristici e dalle palette austere, tradisce la natura fittizia della percezione.
Melissa Brown si inserisce nel solco di questa tradizione di nature morte concepite per mettere alla prova l’esperienza del reale. Le sue opere sono manifestazioni di ricordi duplicati più volte – lei stessa le definisce “le mie impressioni della memoria”. Muovendosi a più direzioni tra osservazione, reminiscenza e documentazione fotografica dei luoghi (in tempi recenti la città di Trento, situata nel Nord Est italiano, sul fiume Adige, alle pendici delle Dolomiti), Brown compone tableaux che sono al contempo centrati e dislocati rispetto al soggetto.
Nei lavori della serie Flower Games, i fiori tracciano il percorso, dall’impressione iniziale alla rappresentazione pittorica. Mentre Brown inizia a dipingere i gigli in “Door to the Inner Chamber” (2024), le piante perenni, amanti dell’estate, lasciano il passo alle ortensie, dipinte in altre opere. Ai fiori selvatici e alla flora alpina di Trento si intervallano i fiori recisi che crescono nel suo cortile, ricomposti nei vasi. A ciò si aggiungono altri elementi caratteristici delle composizioni di Brown, che, come nelle serigrafie, appaiono giustapposti, strato dopo strato. Carte, specchi e simboli legati alla futura sorte suggeriscono un gioco di prestigio finale.
In un mondo in cui la maggior parte delle immagini è determinata da un algoritmo, dove così poco spazio è lasciato al caso, ogni minima traccia di mistero prende i contorni del sogno. Di fronte alle opere di Brown, comunque, siamo testimoni non tanto della riflessione di uno stato subconscio, quanto invece dell’unione di molteplici modalità di risveglio. L’artista condivide la serietà con Morandi e la dimensione metafisica con Carrà e de Chirico, ma la sua fissazione rimane legata al fenomeno reale. Nell’opera “The Conversation” sottili steli di fiori digitali spuntano da una tazza di ceramica dipinta, affiancata da due sculture antiche, che si stagliano sullo sfondo giallo di un soffitto voltato. Ogni elemento è tratto da un segmento della vita dell’artista: i fiori a trombetta provengono fortuitamente da un vivaio all’aperto del New Jersey, vicino a casa di sua zia; la tazza, classico esempio del gusto kitsch americano, è dell’artista; e le figure di bronzo sono state fotografate da Brown l’estate scorsa, durante la visita al Castello del Buonconsiglio di Trento. Una piccola finestra rettangolare si apre su un gradente di cielo, di un blu caramella filante, che non fornisce nessun indizio sull’ora del giorno. L’uso della pittura vinilica Flashe su dibond, la sua tecnica caratteristica, permette a Brown di congiungere questi frammenti narrativi in maniera atemporale.
Non c’è da meravigliarsi se Brown trova ispirazione nel Castello del Buonconsiglio, che già di per sé è una sorta di collage. Eretto nel XIII secolo come sede del principe vescovo che governava la città, il castello fu poi usato come caserma militare, e infine trasformato in carcere, prima dell’ultimo e definitivo restauro avvenuto negli anni Venti del Novecento. Osservandolo dalla strada, sembra che gli elementi architettonici caratteristici dei vari periodi e i loro slittamenti stilistici si affastellino su di esso come una barriera corallina, a partire dalle fortificazioni medievali, fino agli affreschi tardo-gotici e rinascimentali. Le sue molte vite sono testimoniate dalle variegate collezioni del museo del castello, che annoverano oggetti d’uso comune, ornamenti, mappe, monete e altri artefatti, una selezione dei quali è riprodotta nelle opere di Brown; ad esempio, un calice di Murano dell’inizio del XVI secolo nell’opera “Prince’s Goblet” (2024). L’artista re-immagina il vessillo ornato riempito da un bouquet di pallide rose gialle, le stesse che punteggiano i giardini del castello. Queste “nature morte impossibili” – queste le parole dell’artista – sono frammenti di tempo sovrapposti, che si coalizzano nella sua mente e si traducono nella composizione finale. Segmenti di passato, presente, futuro, con il dominio atemporale della memoria, selezionati e ri-assemblati, giacciono sul piano pittorico. I tarocchi, motivo ricorrente nella vita e nella pratica di Brown, appaiono spesso nel suo lavoro, portando la consapevolezza che esistiamo solo nello spazio creato dall’intersezione fra queste realtà. Così, le cime del Monte Bondone fanno capolino da un groviglio di campanule colorate, appena colte dal suo giardino, dispiegandosi come girandole da un vaso da fiori poggiato su una carta degli Arcani minori – il seme è di spade, simbolo di impeto e di arguzia: nonostante non se ne riesca a leggere distintamente il numero, è un invito a ricordarci del nostro destino.
Trento è spesso chiamata la “città dipinta”, grazie alla ricchezza degli affreschi, soprattutto rinascimentali, che adornano all’interno e all’esterno le case e gli edifici storici, come il Castello del Buonconsiglio. Questo aspetto deve essere stato irresistibile per un’artista affascinata dall’architettura della soggettività – la realtà non è come è, ma come la si vede. Se nel nostro tempo la maniera più frequente di relazionarsi con gli altri avviene attraverso la nostra immagine, producendo continuamente versioni alternative di noi stessi, l’eccellenza di Brown consiste nell’immaginare le molteplicità degli altri. L’artista ha la capacità di trattenere nella sua mente centinaia di angolazioni della stessa veduta. Amici e sconosciuti le chiedono consigli. Forse è per questo che, quantunque sia improbabile e costruito, l’universo dei suoi dipinti non sembra straniante e innaturale: perché lei crede che sia possibile.
Melissa Brown ha visitato Trento all’inizio dell’estate 2024. Il mondo è già cambiato molto da allora, ma presto le zinnie fioriranno ancora. Il castello rimane inalterato, immerso in un inesplicabile tepore, riflesso sottosopra dentro una sfera di vetro. I portoni pesanti, le sale affrescate, l’ombra degli alberi – tutto è esattamente come lo ricorda.