Miki Carone – Indians
Miki Carone esplicita il suo metodo di indagine nell’arte e nella vita, ovvero un approccio ludico alla riflessione, una gestualità apparentemente spensierata che mira a costruire opere dense, ripescando nell’immaginario della realtà talune icone riconoscibili di cui poi tramuta il senso, rivelando letture spesso inedite.
Comunicato stampa
“Da bambino giocavo agli indiani e ai cow-boy. Il gioco consisteva nel far scontrare i soldatini di plastica l’uno contro l’altro manovrandoli con le mani, un po’ come fanno i burattinai con le marionette […]. Il gioco, l’arte, la creatività, la fantasia, sono l’arco e le frecce per poter riuscire ancora a sognare e a far sognare, a desiderare mondi e modi diversi di essere, di vivere, di esistere”. Nel libro d’artista Il gioco degli indiani stampato in edizione limitata nel 1999 per documentare un suo progetto del 1977, Miki Carone esplicita il suo metodo di indagine nell’arte e nella vita, ovvero un approccio ludico alla riflessione, una gestualità apparentemente spensierata che mira a costruire opere dense, ripescando nell’immaginario della realtà talune icone riconoscibili di cui poi tramuta il senso, rivelando letture spesso inedite. Fa così anche ad Acaya, nell’antico maniero di Gian Giacomo, che ancora una volta diventa uno spazio laborioso per accogliere i linguaggi dell’arte contemporanea, rivelandosi crocevia di storie, incontri e destabilizzanti straniamenti percettivi. Con Indians, Miki dà vita a un percorso negli ambienti ipogei del castello, che invade con ironia dissacratoria e meditata, reinventando anche le stesse architetture e i percorsi possibili nello spazio della rappresentazione. Lo fa in particolare nella sala circolare in cui si conclude il percorso, dove ha installato una serie di grandi remi che compongono la forma di una capanna indiana, di un contenitore ideale e reale in cui conservare se stessi, irrimediabilmente. Sovverte così la struttura circolare dell’ambiente, invitando i visitatori a percorrerla con un nuovo approccio, oltre che a interagire con l’opera stessa. In quest’opera il lato ludico si intreccia con la volontà di interagire con il pubblico, di renderlo partecipe e protagonista dell’installazione. Ma questa è una peculiarità che permane nell’ormai lungo trascorso in arte di Carone, che continua a inventare e a reinventarsi senza però mai tradire un aspetto ricorrente, ovvero un’attenzione alla natura e al sogno, che stravolge, interpreta, decodifica con linguaggi diversi, così come con materiali feriali e oggetti prelevati dalla realtà. Accade anche nel video del 1977, Il gioco degli indiani, che qui proponiamo in un inedito duetto con la tenda, a conferma che nonostante siano trascorsi quasi quattro decenni quel mondo atemporale continua a interessare la sua indagine. La capanna che oggi troviamo nel castello forse è la stessa di quella del video del 1977; mancano i tessuti, i simboli arcaici e i pupazzi immobili che l’artista ha ambientato in uno scenario senza confini. Permane invece la volontà di guardare a un immaginario impenetrabile, che poi è anche metafora stessa dell’arte, riserva indiana del pensiero obliquo. (dal testo critico di Lorenzo Madaro in mostra).