Mino Maccari – L’ironia visionaria di un insidioso pennello
La sua personalità “letteraria”, legata all’espressione e alla comunicazione verbale, è profondamente immersa nella grande arte visiva occidentale, e questa considerazione allontana il rischio di essere portati a sottovalutare l’autorità e l’autonomia estetica di una pittura che vive assolutamente di luce propria.
Comunicato stampa
Giovedì 10 aprile 2014 alle ore 18.30, presso la sede della Galleria Marchetti di Roma, Via Margutta 8, verrà inaugurata la mostra MINO MACCARI - L’IRONIA VISIONARIA DI UN “INSIDIOSO PENNELLO” , aperta fino al 31 maggio 2014, realizzata con la collaborazione dell’Archivio Mino Maccari.
L’ esposizione - a 25 anni dalla morte dell’artista – mette in evidenza, attraverso una trentina di dipinti - dal 1954 al 1984 – l’ironia visionaria e la verve fantastica proprie del “realismo espressionista” della pittura di Maccari, meno conosciuta rispetto alla sua produzione grafica.
Nel catalogo, edito da Grafiche Turato Edizioni, a cura di Silvia Pegoraro, oltre al testo introduttivo della curatrice, scritti di Lorenza Trucchi e di Andrea Tugnoli.
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Il giudizio sull’opera pittorica e grafica di Mino Maccari è in genere legato, dato il suo peso di scrittore e polemista, a quello sulla sua personalità letteraria. In effetti gli spiriti della rivista “Il Selvaggio” (da lui diretta dal ’26 al ’43), confluiti nel movimento “Strapaese” – che fa del regionalismo e del provincialismo un’arma contro l’esterofilia e soprattutto contro l’accademismo - passano sen’altro nella sua ricerca artistica. In realtà la cultura di Maccari è profondamente europea: non è un caso che nella piccola Galleria del Selvaggio, aperta a Firenze nel 1927, oltre agli artisti che gravitano attorno al giornale (Soffici, Morandi, Rosai, Bartolini ecc.), Maccari faccia esporre le opere di molti artisti stranieri con cui dialoga e dialogherà in vario modo: da Goya a Ensor, da Grosz a Kokoschka. La sua personalità “letteraria”, legata all’espressione e alla comunicazione verbale, è dunque profondamente immersa nella grande arte visiva occidentale, e questa considerazione allontana il rischio di essere portati a sottovalutare l’autorità e l’autonomia estetica di una pittura che vive assolutamente di luce propria, sia per l’originalità della concezione che per la sapienza tecnica, e che è fatta di ironia spumeggiante e di un profluvio di segni caricaturali, ma anche di poesia lirica e malinconica, di incantato abbandono, di visioni fantastiche e di atmosfere surreali, come dimostrano alcune opere esposte alla Galleria Marchetti di Roma a 25 anni dalla morte dell’artista (1989-2014) : si veda la trasposizione ludica e fiabesca del tema "militarista" della parata in quel mirabolante gioco d'artificio cromatico che è appunto La parata (1959) o lo splendido Cinque figure, degli anni '60, capolavoro plastico e coloristico, dalle tonalità ardenti e grevi. Se, da una parte, s’interroga continuamente sulla funzione dell'intellettuale e intende l'arte anche come mezzo di civile intervento, di riflessione e di presa di coscienza, e dunque il suo impulso creativo tende a configurarsi come impulso a “fissare” una realtà di pensiero, dall'altra si percepisce in lui una gioia quasi fisica di vivere questo impulso come immersione nella danza metamorfica e dissolvente delle forme. Maccari è infatti ciò che Baudelaire avrebbe definito “un grand coloriste”: il suo colore va verso una febbrile intensità, una potente suggestione onirica; le figure emergono da una costellazione di pure note timbriche, che vibrano in armonia o in dissonanza, sino ai lavori degli anni più recenti, in cui la resa cromatica della luce in rapporto ai volumi delle figure è il prodotto di un’originale simbiosi tra “empatia” e “astrazione” . Federico Zeri, che attribuisce a Maccari un’“eccezionale lucidità d’occhio e di mano”, e parla di straordinaria “acutezza mentale e percettiva di questo inesauribile esploratore visivo”, afferma però che “la sua pittura resta in sottordine rispetto all’incessante, perenne stimolo che agita e sorregge la sua produzione disegnativa” . Maccari applica in realtà alla pittura l’immediatezza della realtà schizzata nel disegno : essa manifesta, e letteralmente sprizza da ogni pennellata, la forza espressiva e comunicativa, la pregnanza, la chiarezza tipica del suo talento di disegnatore, eppure, nello stesso tempo, va molto aldilà, per inoltrarsi in territori più vasti e complessi. Il pittore toscano sembra potersi inscrivere nel novero di quei “realisti visionari” che, come scrive Henri Focillon nella sua Estetica dei visionari, formano un ordine a parte, e le cui opere introducono nella nostra concezione dell’universo qualcosa d’improvviso e di vago, d’inquietante e d’ indefinibile. Il problema del realismo si presenta al pittore tra il ’19 e il ’26, con la scoperta del paesaggio toscano filtrato dalle reminescenze dei Macchiaioli, della natura morta e degli interni con figure tra Cézanne e Soffici, e si ripropone via via, negli anni, ad esempio in un tema legato alla mimesis e tradizionalmente “concorrenziale” alla fotografia come quello del ritratto, che darà alla pittura di Maccari frutti pregevolissimi: si pensi ai numerosi autoritratti (come l’Autoritratto con profilo di donna o l’Autoritratto con bicchiere, entrambi del ’76), o ai ritratti dei contemporanei Vitaliano Brancati, Libero De Libero, Ottone Rosai, fino a quello - presente in questa mostra - di uno dei suoi amici più cari, che è anche uno dei suoi pochissimi veri consanguinei morali e intellettuali, ovvero il brillante, sottile, tenero, cinico Ennio Flaiano (1965-70). Si pensi, ancora, al ritratto di Erich Von Stroheim, vero mito, per Maccari, di cui l’artista fa un’icona ricorrente, quasi un simbolo misterioso, quasi un logo concettuale della sua pittura , e che si ripresenta, in questa mostra, inserito nell’opera Due coppie (1965-70). L’importanza della drammaturgia musicale, del teatro e del cinema per Maccari è giustamente stata messa in luce in un bel saggio del ’93 di Lorenza Trucchi (qui riprodotto in catalogo) che definisce l’artista un “virtuoso della messa in scena”, impegnato a regalarci un mirabolante “spettacolo multimediale in cui alle risorse specifiche del linguaggio artistico si aggiungono quelle dello spettacolo cinematografico” Qualcuno ha affermato che la scenografia teatrale rappresenta quasi un'antologia della pittura di Maccari. Infatti, negli splendidi bozzetti per la scenografia del Falstaff di Verdi realizzati nel 1970 per il Maggio Musicale fiorentino (uno dei quali, di sognante e magica eleganza, è presente in questa mostra), come in quelli precedentemente realizzati per Il Naso di Šostakovič (1964), si nota l'esigenza di una continua “frantumazione” dello spazio scenico in senso pittorico. Una delle caratteristiche più evidenti della pittura di Maccari è la ciclicità: il ricorrere, in infinite varianti, di temi e figure, di tipologie fisiche e fisiognomiche, di schemi spaziali e strutturali: ad esempio lo schema di coppia uomo/donna, spesso raddoppiato o moltiplicato (si vedano qui, ad esempio, oltre al già citato Due coppie del ’65-70, Arlecchino del ’64, Omicidio del ’65 o Coppie in campagna del ’68, fino a La cameriera del 1984). Questa ciclicità consente di affrontare il soggetto scelto secondo più punti di vista, individuandone ogni possibile sfumatura. Ciò che sembra interessare Maccari è la molteplicità delle possibilità di relazione del soggetto stesso, in cui l’artista mira a cogliere le mutazioni più intime e insieme più concrete di un racconto. A novant’anni, l’artista rivelò che i suoi veri maestri erano stati Gargantua e Pantagruel, e dunque il loro creatore, il narratore francese del ‘500 François Rabelais (1494-1553), sulle tracce del quale Maccari sembra creare una sorta di realismo grottesco, sagace e vitalistico, radicale e terragno, che contempla anche “l’eccezionale predominanza del principio materiale e corporeo” (Bachtin) propria della cultura popolare: così il corpo rappresenta per lui, nella sua topografia fisica e simbolica e nei suoi processi di trasformazione, l’espressione stessa delle mappe biologiche e culturali della vita. In questo senso la figura più ricorrente nella pittura di Maccari è anche la vera chiave di lettura della sua poetica: la figura femminile, ambigua e seducente, semplice e inesauribilmente vitale, che fronteggia eserciti di soldati e di capitani d’industria, di uomini di potere e di portaborse, di vecchi satiri azzimati, e che rappresenta l’essenza stessa della vita : spesso tragica e sempre, giorno dopo giorno, tragicamente leggera ed equivoca .
NOTA BIOGRAFICA
Mino Maccari, nato a Siena nel 1898, a diciannove anni partecipa alla Grande Guerra come ufficiale di artiglieria di campagna. Tornato a Siena nel 1920 si laurea in giurisprudenza ed inizia a lavorare presso lo studio dell'avv. Dini a Colle Val d'Elsa. Sono di questi anni i suoi primi tentativi di pittura ed incisione.
Nel 1922 partecipa alla "marcia su Roma".
Nel 1924 viene chiamato da Angiolo Bencini a curare la stampa de "Il Selvaggio", dove vi appaiono le sue prime incisioni; nel 1926 abbandona la professione legale e ne assume la direzione fino al 1942. Nel 1925 la redazione del "Selvaggio" si trasferisce a Firenze e tra i suoi collaboratori annovera Ardengo Soffici, Ottone Rosai e Achille Lega. Nel 1927 Maccari partecipa alla II Esposizione Internazionale dell'Incisione Moderna e alla III Esposizione del Sindacato Toscano Arti del Disegno. L'anno dopo è presente alla XVI Biennale di Venezia. Nel 1929 "Il Selvaggio" si trasferisce a Siena e Maccari espone delle puntesecche alla II Mostra del Novecento Italiano a Milano. Agli inizi degli anni Trenta è capo redattore della "Stampa" di Torino, accanto al direttore Malaparte. Nel 1931 partecipa alla I° Quadriennale di Roma (dove sarà ancora nel 1951 e nel 1955). Nel 1932 "Il Selvaggio" si trasferisce a Roma. Nel 1938 viene invitato alla XXI Biennale di Venezia con una sala personale, collabora ad "Omnibus" di Longanesi e tiene una mostra personale all'Arcobaleno di Venezia. Nel 1943 espone ad una personale a Palazzo Massimo in Roma e alla Mostra Dux al Cinquale di Montignoso. Nel 1948 è di nuovo alla Biennale di Venezia dove gli viene assegnato il premio internazionale per l'incisione (vi sarà anche nel 1950, 1952, 1960, 1962). Alla fine degli anni Quaranta inizia la sua collaborazione alla rivista liberale "Il Mondo", diretta da Pannunzio, conclusasi nel 1963. Nel 1955 è alla Biennale di San Paolo (Brasile). Nel 1962 gli viene affidata la presidenza dell'Accademia di San Luca. Quindi nel 1963 tiene una mostra personale a New York alla Gallery 63 e nel 1967 partecipa alla "Mostra d'Arte Moderna in Italia 1915-1935", tenuta a Firenze a Palazzo Strozzi. Seguono una serie di mostre personali ed esposizioni internazionali di grafica, tra cui quella del 1977 a Siena, dove gli viene dedicata una personale a Palazzo Pubblico. Muore nel 1989 a Roma.