Mostra dei Plumcake nella collezione di Lino Baldini
Tutti conosciamo il lavoro tridimensionale che i Plumcake hanno realizzato, un lavoro giocato tra l’essere e l’apparire, tra la forma e il simulacro tipico di una fase postmoderna che ha privilegiato il vuoto sul pieno.
Comunicato stampa
La mostra dei Plumcake nella collezione di Lino Baldini
Tutti conosciamo il lavoro tridimensionale che i Plumcake hanno realizzato, un lavoro giocato tra l’essere e l’apparire, tra la forma e il simulacro tipico di una fase postmoderna che ha privilegiato il vuoto sul pieno. Le loro sculture in vetroresina monocroma, sgargianti e brillanti sono state un po’ il simbolo di una cultura che ci ha accompagnati durante tutti gli anni ottanta e che ha sottolineato il valore della superficie e dell’effetto. Un valore di superficie quello che i Plumcake ci hanno proposto, che si è compiaciuta del suo stesso apparire in quanto privata del proprio interno, della propria profondità e fondamenta.
Ecco così i loro oggetti senza passato e senza storia, capaci però di affascinare e sedurre proprio grazie a questa mancanza che li ha costretti a giocare il proprio essere, il proprio esistere sull’effetto speciale della pelle.
Le opere che i Plumcake ci hanno presentato nei trent’anni passati sono la messa in atto dello statuto umanistico e tecnico che è stato alla base dell’opera nel periodo moderno, ma uno statuto non più fondato su solide basi, ma su un gioco di superfici: oggetti senza identità, senza volume, senza spazio e tempo assoluti, piccole storie quotidiane che ci corrispondono. Oggetti costruiti per l’uomo fabulizzato che ognuno di noi è diventato.
Le loro opere, come del resto tutto ciò che la post-modernità ha prodotto, non obbediscono certo ad una regola preordinata, esse invece cercano di inventare di volta in volta nuove regole, nuovi giochi di linguaggio creando giorno per giorno un mondo sempre inedito.
Già il nome assunto per il gruppo - Plumcake - è eloquente circa l’atteggiamento con cui i tre artisti pavesi si sono rapportati con il mondo dell’arte.
Loro - Gianni Cella, Romolo Pallotta e Claudio Ragni - si presentano come artigiani di una fabbrichetta che sforna oggetti morbidi, soffici, fragranti come merendine, nelle confezioni ben colorate, smaglianti e vistose, che catturano e deliziano l’occhio e il tatto prima ancora del gusto.
Al nome caramelloso e, ammettiamolo, poco serio per artisti seri, uniscono poi una distaccata e ironica considerazione per i meccanismi della produzione e del mercato: non che se ne disinteressino e li rifiutino (che sarebbe uno snobismo) ma, consapevoli che l’arte è merce, è consumo alla stregua di tutto il resto, si comportano di conseguenza, cercando di trarre il maggior beneficio da quanto realizzano giocando, assecondando la voglia di tornare ragazzi, rifacendo il verso a situazioni auliche o, al contrario, enfatizzando col gigantismo e l’accensione cromatica motivi kitsch e decisamente banali.