Nacho Martín Silva – La distancia entre el blanco y el negro es gris
Galleria Macca presenta La distancia entre el blanco y el negro es gris, di Nacho Martín Silva, a cura di Francesco Giaveri.
Comunicato stampa
Nacho Martín Silva
La distancia entre el blanco y el negro es gris. [Grigia è la distanza tra il bianco e il nero]
A cura di Francesco Giaveri
Avevo compreso che il mondo intero,
che si stava polverizzando attorno a noi,
voleva essere completato con la magia, con la parola.
Hugo Ball
Un testo cresce, una parola dopo l’altra. Un dipinto si fa, un tratto dopo l’altro. Un frammento di pigmento dopo l’altro riempie quella distanza che separa una macchia astratta da un qualcosa di riconoscibile, un dettaglio a cui aggrapparsi. Nella zona grigia, lì dove sensazioni e pensieri rimangono in sospeso, indifferenziati per un instante, Nacho Martín Silva (Madrid, 1977) approfondisce la differenza, intesa non come separazione bensì come terreno fertile per il dialogo. La distanza è un sentiero per un possibile incontro, un processo chimico di gesti mischiati, dove abita la possibilità.
Il contesto in cui viveva Hugo Ball all’inizio del ventesimo secolo trova preoccupanti e cupe somiglianze con la nostra attuale congiuntura, sommersi, come siamo, al bordo del collasso. Ora più che mai abbiamo bisogno della magia per sopravvivere, dal momento che un miracolo pare non essere più sufficiente. Il miracolo lo aspetti, la magia la fai.
Alla fine, si tratta soltanto di sfumature. Si tratta di sottigliezze poco o nulla percettibili, anche se sono proprio queste piccole differenze quelle che conferiscono a qualcosa, pittura o immagine che sia, il suo carattere determinato. La lettura dei lavori in questa mostra si cela tutta in dettagli irrisori; la combinazione e l’unione – magica – di questi frammenti, la stabilisce lo spettatore. Ciò che importa è la possibilità di transitare una distanza, tra la potenza e l’atto, tra il bianco e il nero. Ciò che merita la nostra attenzione è come comprendere i sintomi della dissoluzione, come riconoscere quei piccoli dettagli determinanti che sgretolano la differenza e lasciano spazio alla comprensione.
Scovare le tracce dello scontro e della sua dialettica inconciliabile, tra il fulmine e la latenza. Il progetto di Nacho Martín Silva sorge da una dicotomia tra il visibile e l’invisibile, tra il frammento e il tutto. Le sue tele si materializzano grazie ad aggiunte successive (tracce, strati, dettagli, colori e sfumature). I suoi lavori invitano ad esplorare la possibilità, mettendo assieme trame snodate di un racconto non concluso.
In questa mostra si pongono domande, ed è necessario mettere assieme i frammenti sparpagliati di ciò che è stato un insieme, che però non potrà più tornare ad esserlo. Si aprono molte possibilità, tante quante le letture che realizziamo durante la visita in galleria. I libri attendono i lettori, i dipinti gli spettatori. Le parti hanno trovato la propria autonomia, sono frammenti autonomi, distanti e differenziati dalla loro origine.
Ciò che rimane ora sono questioni difficilmente risolvibili attraverso una risposta precisa, determinante, univoca. Le domande resistono, rimangono in attesa, pertinenti e radicali.
La pittura non deve soltanto rappresentare un oggetto, non è più necessario, ma la sua aspirazione e massima ambizione dovrebbe essere rappresentare, allo stesso tempo, l’oggetto e la potenza per mezzo della quale si è rappresentato. Il movimento che occupa quella distanza, durante il processo chimico, che inizia con la tela bianca fino alla sua conclusione e esposizione pubblica, dovrebbe conservare la potenza nell’atto. Non distruggerla ne consumarla.
Al centro della Galleria Macca, su una amplia base bianca, si dispongono le tre pietre che danno il nome a questo progetto di Nacho Martín Silva, alla sua prima mostra personale in Italia. Le tre pietre rappresentano una distanza, una scala cromatica ma anche una casualità. In un celebre passo di Molloy, Samuel Beckett descrive il periplo mentale del protagonista che riflette sulle possibilità, variazioni, ripetizioni (e ossessioni) ma anche sul caso. Lo fa descrivendo le strategie che Molloy trova per succhiare ogni volta una delle pietre che ha in tasca. “Le distribuii equamente tra le mie quattro tasche e le succhiai a turno. Ciò poneva un problema che risolsi sulle prime come segue. Avevo, supponiamo, sedici pietre, quattro per ciascuna delle mie quattro tasche, che erano le due dei pantaloni e le due del cappotto. Quando prendevo una pietra dalla tasca destra del cappotto, e me la mettevo in bocca, la rimpiazzavo nella tasca destra del cappotto con una pietra della tasca destra dei pantaloni, che rimpiazzavo con una pietra della tasca sinistra dei pantaloni, che rimpiazzavo con una pietra della tasca sinistra del cappotto, che rimpiazzavo con la pietra che avevo in bocca, non appena finito di succhiarla. Così c’erano sempre quattro pietre in ciascuna delle mie quattro tasche, ma mai le stesse”.
Ai lati del grande arco della galleria, sono installate due tele dello stesso formato, in bianco e nero. Tutte le opere di questa mostra transitano tra il bianco e il nero. Tutte tranne una. Vediamo le mani (dell’artista) che maneggiano un cubo di Rubik. Il cubo è però sprovvisto della sua qualità più essenziale, i colori dei quadrati delle sei facce. Si può comunque continuare a girare, cambiando di posizione i quadretti, non del tutto bianchi ma nemmeno grigi… le mani sono due in ogni tela, quattro in totale, una con un guanto nero e l’altra con un guanto bianco. Due guanti bianchi, due guanti neri. Il suo movimento, tanto intrigante come assurdo, consiste nel far girare un rebus senza soluzione. E sappiamo bene che non c’è soluzione perché non c’è problema. Anche se in realtà sì che siamo di fronte ad un problema: il collasso. Che fare? Continueremo a succhiare pietre? Domande senza risposta… aspettiamo l’elemento magico, magari lo provochiamo. La magia, o forse il tocco magico della pittura, che si manifesta sulla tela. In una diversa dimensione cromatica si trova una piccola tela a colori che mostra un’operazione di lobotomia praticata ad un paziente cosciente. Un’azione chirurgica: intensità pura.
Le due opere più estese di questo progetto, occupano le pareti principali della galleria e si intitolano Errática de la historía lineal #1 e #2. Prendendo come modello un’immagine storica, Nacho Martin Silva realizza un dipinto in bianco e nero su un supporto diviso in 9 spazi di dimensioni ridotte. Una volta terminato, la tela si scompone in 9 quadri che l’artista dispone in sequenza lineare, uno affianco all’altro, secondo l’ordine determinato dalla tonalità, dal bianco verso il nero. Nella linea composta da queste tele si inserisce successivamente un altro dipinto della stessa misura, il cui modello però è un’immagine diversa, anche se mantiene una certa relazione con la precedente. In queste due serie, l’artista incrementa le possibilità di ricomporre i frammenti. Aprendo una breccia nel racconto univoco e diretto, l’artista propone allo spettatore altre letture, o meglio ancora, gli permette di dare libero sfogo a tutte le letture possibili. Inserendo un’immagine diversa, anche se appartenente allo stesso ambito semantico, restituisce all’insieme la sua potenzialità piena: la possibilità di continuare ad aggiungere qualcosa sempre durante il complesso, e per nulla lineare, processo di lettura di un’immagine.
Su una corda tesa, in bilico tra la vita e la morte, l’acrobata percorre la distanza tra un balcone e l’altro; sospeso nel vuoto, tra la luce e l’oscurità. L’insieme di questa mostra relega la realtà ai dettagli, mentre, nel suo complesso, si tratta di un racconto affabulante, dove la distanza tra ciò che è e ciò che potrebbe essere si allunga come un elastico, il tempo si sospende, la distanza si accorcia. Nella loro individualità isolata, i dettagli non sono fuori dal comune, ma la loro unione, tra di loro e con lo spettatore, genera una dimensione sognante, fiabesca, magica.
Continua Molloy: “E quando mi riprendeva la voglia di succhiare attingevo di nuovo dalla tasca destra del cappotto, con la certezza di non riprendere la stessa pietra dell’ultima volta. E, mentre la succhiavo, risistemavo le altre pietre come ho spiegato. E così via. Ma questa soluzione mi soddisfaceva solo a metà. Perché non mi sfuggiva il fatto che, per effetto di un caso straordinario, a circolare potessero essere sempre le stesse quattro pietre”. Il mondo di Molloy, e le pagine di Beckett in generale, è grigio. Un tono grigio cenere, nelle sue infinite sfumature, ricopre le pagine del racconto. La distancia entre el blanco y el negro es gris. [Grigia è la distanza tra il bianco e il nero]. La pietra che non è ne bianca ne nera è grigia. E sta a metà strada tra la pietra nera e la pietra bianca.
Chissà se davvero si tratta di magia, uno strumento di incalcolabile valore capace di sovvertire tutto ciò che è normativo. La magia è capace di superare i limiti, inserendo nell’esistenza tutta la potenza del cambio. La potenza è la possibilità che si scopra e si diffonda qualcosa di nuovo, che cresca attraverso il dialogo con gli altri, che si porti a termine. E così successivamente. Per questo serve un intervento, quasi chirurgico, nel modo di pensare. Cosa ci può essere di più opportuno, dunque, di una lobotomia?
BIO
Nacho Martín Silva (Madrid, 1977) vive e lavora a Madrid. Ha studiato Belle Arti alla Universidad Complutense di Madrid. Tra le sue mostre più recenti, La cuestión es ir tirando, al Centro Cultural Español a Città del Messico; Il futuro non è ciò che era, a cura di Tolo Cañellas, al Box 27 (Palma), e Tirar del hilo hasta quedar ciego alla JosédelaFuente (Santander) nel 2017; El Gran Estudio, a cura di Ángel Calvo Ulloa, nel Centro de Arte de Alcobendas (Madrid) nel 2016. Ha partecipato a mostre collettive in musei, gallerie e instituzioni internazionali. Ha vinto il Premio Pilar Juncosa, e Sotheby’s a la Creación artística, con il Soporte a las Artes Visuales de La Comunidad de Madrid, premio Estampa - Casa de Velazquez e il Premio Absolut-Jugada a 3bandas. I suoi lavori sono presenti in collezioni private e istituzionali internazionali.