Nello Frontera – Fuoco e Grafite
Impronte di luce e di ombra. Esposizione delle opere di Nello Frontera
Comunicato stampa
Fuoco e Grafite. Impronte di luce e di ombra
Esposizione delle opere di Nello Frontera dal 13 Luglio al 5 Agosto 2011
ACCADEMIA DEI FISIOCRITICI
Piazzetta Silvio Gigli (Prato di S. Agostino) – 53100 – Siena
www.accademiafisiocritici.it
di Gianmichele Galassi (Univ. di Siena – Accademia dei Fisiocritici)
Introduzione
Ho conosciuto Nello Frontera solo qualche mese addietro, ma fra noi abbiamo sentito un accordo di fondo, come due diversi strumenti che vibrano intonati, parole e pensieri scorrevano tanto fluidi da ritrovarci -ancora dopo due ore - a conversare; gli argomenti, i più vari: dalle impronte catturate nella carta ai massimi sistemi cosmologici il passo è breve, soprattutto se guardiamo alle cose come parte di un tutto.
Nello è un uomo che sa apprezzare le cose semplici catturandone l’essenza: questa è la sua arte, un’arte che sa trasformare la semplicità di una pietra o la naturale bellezza di un’erba in una visione eterea capace di toccare le nostre corde in profondità, giù giù sino a raggiungere l’anima stessa.
A Nello piace l’arte in quanto tale, per quello che sa esprimere e per quello che riesce a suscitare, in una parola, egli trae forza e spunto dal sentimento, natura ed umanità sono legati in un intreccio armonico che pare trasmettere qualcosa di esoterico; a volte, sembra addirittura che egli sia capace di scavalcare il confine invisibile ed impalpabile creato dalla spazialità e dal tempo, rendendolo suscettibile alla propria arte. Del resto, per alcuni, ovvero per quei pochi che hanno occhi per vedere, il limite fra i mondi della materialità e della spiritualità si fanno labili, sino a cadere definitivamente, lasciando filtrare quella luce che tutti andiamo cercando…
Le sue opere che oserei definire gentili, delicate ed eleganti sono in netto contrasto con il fuoco e la grafite, simboli tangibili della forza e della raffinatezza della particolare tecnica realizzativa utilizzata con perizia dall’artista Nello Frontera.
Intervista a Nello Frontera – Secreta Magazine 3/4_2011
di Gianmichele Galassi
1) CHI E’ NELLO FRONTERA? COSA VUOL DIRE PER TE ESSERE ARTISTA?
Una domanda apparentemente semplice, alla quale però ho qualche difficoltà a rispondere. Parlare di se stessi è sempre po’ imbarazzante, ma ci proverò, cercando di mettere insieme quello che so, sperando così di arrivare ad una approssimazione accettabile. Di solito, è una professione o un mestiere che ci identifica, che ci connota ma, non avendo né l’una, né l’altro…
Potrei dire che sono un’artista, o un giardiniere, forse un poeta, o un anacoreta… non so.
In verità mi viene da pensare alla figura del viandante, e credo in fondo che questa metafora sia calzante.
Non ho mai accettato l’idea che l’arte per me potesse diventare un mestiere, e così è stato. Ma scelte tanto perentorie non sono sempre indolore.
Nelle mani dipinte migliaia di anni fa sulla roccia - in Patagonia, in Francia o in altri luoghi - è come se il tempo si fosse azzerato nella contemporaneità di un saluto, o magari di uno sguardo: una dichiarazione di consapevolezza, la percezione di una grande possibilità ma anche di un limite; una capacità di astrazione attraverso la rappresentazione delle proprie mani. Ma questa è solo una mia suggestione.
Penso che essere artista sia una condizione, una disposizione d’animo; credo significhi provare curiosità e meraviglia, vedere bellezza e mistero, trovare utilità e nobiltà là dove superficie e apparenza parrebbero suggerire il contrario.
Forse è il tentativo di ricomporre noi stessi attraverso gli infiniti frammenti di realtà o irrealtà che sono sparsi intorno a noi: nella natura, nelle cose, negli altri, o magari la necessità di tradurre la materia in sogno, e il sogno in segno. O forse soltanto, per citare il musicista Giacinto Scelsi: “Aspirare al tutto per non volere niente”.
Italo Calvino una volta disse: “L’occhio del pittore è sempre ironico e interrogativo, e le sue tranquille affermazioni non sono altro che domande formulate con discrezione, dopo le quali non resta che aspettare risposte che forse non verranno e nuove domande che verranno certamente”.
2) PARLACI DELLA TUA FORMAZIONE, DELLE INFLUENZE CULTURALI (ARTISTICHE, LETTERARIE, FILOSOFICHE, MUSICALI) PIU’ MARCATE NELLA TUA ARTE
Mi ricordo che in casa non c’erano libri e l’unica finestra sul mondo –un altro mondo- era la radio.
Sono cresciuto in una città che cresceva in bilico tra la nuova, reale o immaginaria mitologia urbana, quotidiana, inesorabile, che si andava costruendo, e quella arcaica e lontanissima della terra d’origine, ancora chiusa in valigia insieme alla vita precedente.
La mia è una cultura composita. Sono un autodidatta, e questo ha significato dover disporre di più tempo, di più errori, per poter procedere… Spesso ho dovuto usare più le braccia che la testa, ma anche questo è conoscenza.
La prima volta che superai la soglia di una galleria d’arte, avevo 15 anni. Fu quasi come mettere piede sulla Luna. Dopo aver camminato a lungo e senza strumenti trovai la “Bussola”. Questo era il nome della galleria. Da questo episodio un po’ surreale, che considero il primo di una serie di punti di arrivo e di partenza, sono cambiate tante cose. Ho frequentato scuole d’arte, ho visto le prime mostre importanti, ho fatto nuove amicizie. L’Istituto d’Arte ha rappresentato certamente un momento importante nella mia formazione. Tra l’altro in quel tempo, organizzati dall’Istituto, ci furono una serie di incontri-lezione con alcuni disegnatori industriali che collaboravano con l’Olivetti di Ivrea, nel corso dei quali ebbi modo di conoscere Ettore Sottsass. Un’esperienza unica ed un unico rammarico: quello che non fosse uno dei miei insegnanti.
Fu con un gruppo di amici conosciuti a scuola, con cui condividevo non solo le urgenze culturali ma anche le molteplici difficoltà sociali di cui il tempo che vivevamo era saturo, che cominciai a fare delle vere e proprie scorribande attraverso tutte quelle discipline del sapere e della creatività, che sembrava fossero li ad aspettarci. Si passava da una materia all’altra senza un ordine preciso ma cercando di riflettere, di discutere, di scegliere. Questo era molto eccitante. C’era una gran voglia di conoscere, di imparare, di partecipare. C’era la convinzione che per capire fosse necessario allargare il più possibile l’orizzonte delle esperienze, ma anche la consapevolezza di essere dei neofiti senza mentore.
Dalle avanguardie europee e russe di inizio ‘900, all’arte americana del dopoguerra, dall’arte povera a Boys, le scoperte si susseguivano.
In quegli anni però, ero particolarmente attratto da artisti quali: Kandinskij, Rauschenberg, Novelli, Licini …
Ma fu l’incontro con il lavoro e il pensiero di Marcel Duchamp, a cui approdai più lentamente, che modificò letteralmente il mio punto di vista, riguardo al fare, ai materiali, al tempo, al significato dell’arte, all’identità dell’artista. “Da quando i generali non muoiono più a cavallo i pittori non sono obbligati a morire al cavalletto”, diceva. Ero perfettamente d’accordo. Smisi di dipingere e mi concentrai maggiormente su quello che istintivamente, anche se in modo un po’ rudimentale avevo già sperimentato in precedenza. L’attenzione alle modificazioni e interazioni causali e casuali, tra me, gli oggetti, la natura, l’utilizzo di vecchie foto (una sorta di ready-made), sperimentazioni col fuoco e con la luce solare. Un gioco di osservazioni, interferenze, assemblaggi, attese.
Tutto questo succedeva in un momento in cui l’arte povera e quella concettuale erano molto presenti.
Negli anni ’80, alcune gallerie tornarono a proporre mostre di pittura. Grazie a nuovi pittori che guardavo con attenzione, sull’onda di un rinnovato -comunque mai del tutto sopito- interesse, tornai a dipingere, muovendomi tra figurativo e astratto con colori molto intensi, progressivamente abbandonati per adottarne solo tre: il bianco, l’oro e il nero -che era il colore dominante- e che fu poi l’unico.
Questi quadri neri erano dipinti con smalti e gesso su tela, carta a carbone, carta catramata, vetro, etc.
Nell’importanza che rivestono le diverse espressioni artistiche, non saprei esattamente dire come ma certamente è la musica, ad avere un ruolo predominante. Una sorta di ossigeno, uno spazio di salvezza, di conoscenza, di astrazione… :” Qualcosa di cui il mio corpo ha bisogno”, per dirla con Stendhal.
Béla Bartòk mi ha introdotto alla modernità, John Cage alla contemporaneità, ma non sento come ostacoli i molteplici stili, generi, epoche e culture musicali, anzi, è proprio nella diversità delle esperienze che trovo ciò di cui ho bisogno. Questa è un’incredibile ricchezza.
La poesia, intesa anche nel suo significato primigenio legato al fare, che dovrebbe esprimere l’intima verità che anima un’opera.
Nella filosofia greca antica: Pitagora, Parmenide, Eraclito, tra gli altri, pongono questioni intorno alle quali continuo umilmente a riflettere, così come mi accade anche per il pensiero orientale antico, in particolare per Zhuang-zi, ma non solo.
Pur nel grande limite delle mie capacità, notevoli spunti di riflessione mi sono anche dati dalle discipline riguardanti l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, soprattutto per le implicazioni filosofiche
che mi pare emergano dalle più recenti teorie.
3) ILLUSTRACI TRE CONCETTI ALLA BASE DELLE TUE OPERE
Quando ho iniziato ad utilizzare il fuoco non sono partito da un progetto, non lo faccio quasi mai. Seguo intuitivamente una traccia, una direzione. Tutto si determina e si chiarifica man mano che il lavoro procede. Penso alla superficie di uno stagno in cui si getta un sasso. Soltanto nel ristabilirsi della quiete la superficie potrà tornare a riflettere.
Raggiungere una semplicità di mezzi e di linguaggio.
Lavorare con lo stretto necessario: la carta, il fuoco, le mani, il pensiero.
Cercare quello che occorre per “disegnare”, nei campi, nel bosco: utilizzando elementi vegetali; in casa, in cucina: utilizzando sostanze alimentari.
Queste erano le intenzioni, direi anche le sfide che mi proponevo.
4) DA DOVE SCATURISCE LA PARTICOLARE TECNICA UTILIZZATA NELLE TUE OPERE.
SE NON ALTRO ALMENO IN PARTE IMMAGINO DAI TUOI TRASCORSI ARTISTICI. PARLACENE.
Mi vengono in mente due grandi artisti: Burri e Kounellis, che nel loro lavoro hanno utilizzato anche il fuoco; penso a Nunzio. Ma la mia idea, ancorché grezza, andava in tutt’altra direzione.
Dalla moderna complessità della città, alla semplicità rude, selvaggia e quasi primitiva della campagna in cui vivo: un salto nel tempo e nello spazio, che ha prodotto non solo un radicale cambiamento di vita, ma anche uno spostamento del punto di vista in senso generale.
La terra, l’aria, l’acqua, il fuoco, hanno ripreso il loro posto, la loro importanza, ritornando a determinare lo svolgersi quotidiano della vita materiale.
L’utilizzo del fuoco come materia prima, come strumento di lavoro, è stata una inevitabile, provocante conseguenza, andando a sostituire le esperienze precedenti praticamente azzerate.
I “disegni di pane”, (acqua e farina cotti sulla tela), poi i disegni con pigmenti alimentari sulla tela e anche sulla carta, sono le prime esperienze, ma l’esigenza era di superare questo arcaismo per arrivare ad un disegno più preciso, più nitido, eliminando anche le ultime tracce di pittoricità, e di materialità.
L’utilizzo esclusivo della carta come supporto, era la scelta, rischiosa ma necessaria.
Un confronto, un contatto tra superfici, un confine, un punto, un momento. Il limite prima del quale non accade nulla e dopo il quale tutto si dissolve.
5) COSA PENSI DELL’ARTE CONTEMPORANEA E… COSA PENSI SI DOVREBBE FARE…
Eccetto alcuni importanti e ormai storicizzati artisti ancora attivi –penso tra gli altri a Giuseppe Penone-, dell’arte attuale non conosco molto.
Abitare in campagna costringe a lunghi spostamenti per poter vedere le mostre. Mi muovo poco e non dispongo di tecnologie alternative, però mi è capitato di vedere delle cose molto interessanti. Purtroppo non ricordo il nome degli artisti.
Mi sembra, almeno per quel che ho potuto vedere, che l’arte di oggi viva di una gran quantità di linguaggi e questo credo che sia positivo, però ho come l’impressione che ci sia una gran fretta di fare, di esibire, di convincere, di concretizzare, e invece troppo poco tempo per riflettere.
Se l’arte poi diventa baccano, aspirando con trovate più o meno sensazionali, a fare notizia, diventando una curiosità tra le altre; allora non saprei più cosa dire.
Cosa si debba fare, sinceramente non lo so e sarebbe presuntuoso e credo inutile dirlo.
Penso però, anche se non so come sarà l’arte in futuro, che gli esseri umani non potranno mai farne a meno e ci saranno -ma questo è un auspicio- individui con sufficiente sensibilità e intelligenza che continueranno a interrogarsi e a muoversi in questo strano spazio di libertà e di vita.
BOX:
GRAFITE
2008
Il diamante, bruciando, si trasforma in grafite. Diamante e grafite, un corpo luminoso e uno opaco: due diversi aspetti della stessa sostanza.
In questo nuovo lavoro: sviluppo e conseguenza di quello precedente, il fuoco è stato il ponte, il tramite per passare da una condizione all’altra.
Dal fuoco acceso, al fuoco spento; dalle mani bruciate, alle mani gelate; dalla luminosità, all’opacità; dalla velocità, alla lentezza. La differenza fisica della temperatura e la differenza del tempo di esecuzione, sono le varianti. La carta a contatto diretto con la materia, e il colore, nella sua sintesi monocromatica, sono le costanti.
Una casa di terra cotta, in un campo di terra cruda.
Camminare, camminare; andare, venire da una stanza all’altra, da un campo all’altro. Percorrere lo spazio selvaggio, lo spazio domestico; una quantità infinita di passi percorsi da tutte le persone che hanno abitato lo stesso luogo, nel corso del tempo, sovrapponendosi, confondendosi, anonimi.
Quanti passi occorreranno per fare il giro del mondo? Nei campi, nella terra cruda ogni traccia è persa, ma qui, su questi mattoni screpolati, consumati dall’usura, unica memoria visibile, c’è forse il numero di passi sufficienti a percorrere il perimetro della Terra. Ricalcare queste crepe, questi buchi, questi solchi, è un po’ come seguire un percorso immaginario intorno al mondo.
Come in una visione aerea, il punto di vista si allontana da questa vicina e piatta superficie.