Non c’è più orizzonte
Mostra collettiva.
Comunicato stampa
L'orizzonte è una linea immaginaria che sta solo negli occhi di chi guarda: è un luogo geometrico che si sposta mentre noi ci spostiamo. Essa apre alla dimensione dell'ulteriorità, del sogno, dell'utopia. Ma cosa succede, quando, come oggi, l'intero pianeta è in comunicazione e il nostro sguardo, si dissolve nel fluire indistinto delle immagini? L'artista deve per forza inventarsi nuovi confini, dare corpo a nuove forme, produrre inedite relazioni. Deve mettere al mondo un mondo che prima non c'era (o forse non c'è mai stato). Deve aprire spazi sconosciuti, costringendoci a vedere al di là di quanto si può raggiungere con gli occhi.
Linee volubili, respiri di geografie sterminate, figurine di corda che sembrano divorare lo spazio, ribaltandolo e sospendendolo, “sguardi” in movimento che non si fermano mai e che inseguono strade che non arrivano da nessuna parte. Queste le immagini, sempre al limite dell'incompiuto e dell'incompleto che compongono lo spartito visivo della rassegna “Non c'è più orizzonte”. Esse mostrano “storie” infinite che non conoscono limiti, chiusure, cornici, ma solo un continuo andare che le fa esistere al di là di noi, fuori di noi, a prescindere da noi (e dalle nostre conoscenze). Qui le immagini alludono a un mondo in cui il dato deve essere continuamente ri-dato, ricreato, per venire alla luce e allo stesso tempo rimanere segreto, incomprensibile, inappropriabile. È come elaborare una perenne nascita, un incessante inizio, un dare volto alle cose, ma non per svelarle, quanto invece per animarle e renderle stupite e stupefacenti, alla pari di uno “sguardo bambino”.
“Ricominciamo!” era anche uno dei solerti inviti del regista, fotografo, poeta Abbas Kiarostami (Teheran 1940 – Parigi 2016), presente in mostra con il film Roads e alcune foto. Ricominciare, perché il suo cinema non narra, non conosce sequenze, successioni di eventi, ma un seguito di intensità di cui la stessa macchina da presa fa parte. In Roads essa pare comportarsi quasi in maniera poliziesca, investigatrice, curiosa, alla ricerca di una veduta in più da cogliere, da sorprendere. Non si propone di riflettere sui luoghi inquadrati: si ostina invece nel non chiudere, nel proseguire il film al di là di se stesso.
E cosa definiscono mai le linee-freccia di Andrea Bianconi (Arzignano, Vicenza 1974)? Sono linee spoglie che scattano, si flettono, si spezzano, si cancellano (o si incrociano in direzioni opposte) e ricominciano. Certo è che esse non confinano ma sconfinano; non descrivono ma creano. A volte sono tratti che si allargano, diventando quasi segnali, a volte puri cammini alla cieca, tempeste di segni che si intrecciano, fino ad arrivare al testamento estremo della forma, se non addirittura della visibilità. È come se Bianconi si stesse trasformando (pollockianamente) nella cosa stessa che sta disegnando. La linea non è più allora solo il filo di Arianna, la guida che serve per riconoscersi nel proprio labirinto, ma anche la forza che non cessa di imporsi e trascinare al suo seguito l'artista e l'osservatore.
Di fronte ai corpi minimi fatti di corde annodate di Alex Pinna (Imperia 1967) Giuseppe Ungaretti avrebbe parlato di “Variazioni sul nulla” o di ”impalpabili levità”. Essi, infatti, “prendono vita” attraverso un lavorio di fili che si legano e si saldano, ma anche che si attorcigliano e si ingarbugliano. Così, nel loro “nonnulla” abita la trama e l'ordito, il nodo e l'inganno. Essi non hanno una vera fisionomia, ma piuttosto una fervida intenzione esibitiva, quasi fossero pupazzi o marionette. Eppure non sprigionano vitalismo, tensioni funamboliche, bensì una sorta di pigrizia o di indolenza. Non osservano un mondo a venire come facevano “I viandanti” di Friedrich, ma si dondolano sull'orlo di una catastrofe già avvenuta, si esibiscono su mensole o scaffali svuotati di ogni sapere. Allestiscono uno spettacolo scenografico del disastro e dello smarrimento quotidiano.
E sullo stesso concetto di perdita delle coordinate, di spaesamento visivo si basa anche la grande installazione di Ehsan Shayegh (Khash, Iran 1975). Si tratta di una allusione a quello spazio illimite che è il deserto dove tutto si sgretola, tutto ha una dimensione trascurabile, tutto è precario. Essa non segnala però una sparizione o un'assenza, ma un offrire un corpo anche al vuoto, alla dissoluzione, allo sgretolamento della materia: è un dare forma a ciò che è senza forma, un'immagine a ciò che è senza immagine. È vero: non si vede più il mondo, come se il sole e il tempo l'avessero consumato. Ma al suo posto resiste una traccia, una ferita, un'alterità che pulsa, conferendo valore a ciò che è occultato. Tanto più che Ehsan dissemina lo spazio di pietre colorate, simili a meteoriti, mettendo in comunicazione cielo e terra, suolo e “celesti orizzonti”.
Quattro artisti con quattro linguaggi diversi, ma per arrivare tutti a dare testimonianza di precari equilibri, di dimensioni ulteriori, lì dove prendono senso anche gli strappi e gli squarci del vivere; ma soprattutto lì, dove sorge il mistero di uno spazio che non ha confine e di un tempo che si dà come mescolanza vertiginosa di tempi, eventi, cose. Poi su tutto si diffonde la musica “Buco nero a terra” di Moein Fathi (Teheran, Iran 1993): suoni e canzoni, eseguiti sia con strumenti elettronici che con strumenti tradizionali, come a voler accostare i ritmi orientali a quelli occidentali e, in qualche modo, abolire la lontananza, a favore di una incomparabile immensità.