Ophelia. Della muta eloquenza
Ophelia – della muta eloquenza è una rassegna di video e film senza sonoro che indaga l’enigma di un corpo senza voce come dimensione originaria ed epifanica dell’immagine in movimento.
Comunicato stampa
RITA URSO | artopiagallery è lieta di presentare Ophelia - della muta eloquenza, una rassegna di video e film senza sonoro a cura di Paola Caravati. La mostra indaga l’enigma di un corpo senza voce come dimensione originaria ed epifanica dell’immagine in movimento. L’assenza di suono traccia nelle opere selezionate la condizione stessa della loro eloquenza esibendo la presenza di un irriducibile mistero. L’immagine muta inchioda l’occhio alla visione, è ipnotica, straniante e induce ad interrogarsi sulla sua natura.
In Untitled, 2011, Paolo Meoni costruisce il racconto di un’assenza, celato e insieme prepotentemente presente, ciò che viene precluso allo sguardo informa l’opera imponendo la sua presenza. La camera fissa riprende un adolescente intento ad esibirsi in una danza meccanica che si rivela, ad un’osservazione più attenta, il ripetuto tentativo di direzionare il volo di un aquilone rimasto escluso dall’inquadratura.
Un tempo perturbante e incapace di risolversi, costretto all’attimo prima del suo accadimento decisivo, è quello di Histories that nothing are, 2001-2003, di Runo Lagomarsino, in cui un giovane appare eternamente in procinto di lanciare una bomba molotov.

Con Infocus memories, 2010, Danilo Torre mette in scacco l’onnipotenza della visione mostrando un reiterato e fallimentare tentativo di messa a fuoco. Il video, che utilizza la tecnica del found-footage e la combustione di pellicola, mostra il susseguirsi di fotogrammi che nel momento stesso in cui diventano più distintamente percepibili subiscono un irreversibile processo di consuzione.
E’ un movimento vacante che frantuma ogni possibile rappresentazione del reale quello di Emanuele Becheri nel video Vacations, 2013. L’immagine di una piazza gremita di turisti è animata dal ritmo della camera che sembra impegnata ad oscillare continuamente tra visione e visibilità.
In PS: Jerusalem, 2003, Katinka Bock riprende dall’alto la perfetta composizione geometrica di un gruppo di persone impegnate in un gioco musicale. L’opera scandisce la ritmica di un tempo onirico e complesso capace di coniugare senza soluzione di continuità, una natura fluida e circolare, così come di evidenziare lo scarto temporale, l’istante.
Luca Rento con Greta, 31 Gennaio 2015 16.32.57, 2015, sottrae l’immagine in presenza dilatando in una temporalità sospesa l’immaginario del visibile. Un Tableau vivant scosso da una ritmica interna capace di risuonare in tutta la superficie del quadro.
Shaped cinema, 2010, di Jean-Baptiste Maitre, destruttura e ricompone in termini cinematografici una monografia di Frank Stella degli anni 70 messa in atto come metraggio preesistente. L'intero apparato testuale e fotografico si traduce in una costellazione di frammenti filmici aperti ad una nuova possibile significazione, domanda di una iconografia in continua trasformazione.
Margot Quan Knight nell’opera Sur face (bubbles), 2009, fornisce un’immagine caleidoscopica in procinto di sparizione. Il volto dell’artista si riflette ripetutamente in una serie di bolle di sapone che proliferano in un gioco di continui rispecchiamenti. Evidente fragile simulacro, l’immagine attende la sua annunciata scomparsa.
Quello che Kathrin Sonntag mette in scena in Tango, 2006, è un coup de théâtre che sembra spogliare l’immagine per poterne preservare l’arcano. Un gesto deciso e violento sottrae la tovaglia da un tavolo appena apparecchiato lasciando magistralmente ogni cosa al proprio posto.
Paolo Gioli in Piccolo film decomposto, 1986, incanta lo sguardo nella meraviglia rapsodica della visione, nella ri-creazione di una scrittura del movimento. Il film esibisce il tempo, lo sospende, reitera, duplica, rallenta, sovrappone, Gioli perturba lo sguardo in una pulsione interotta del cinema.
Completa il progetto espositivo, in occasione dell’opening, Uncofied signals, un intervento sonoro di Pietro Riparbelli. La performance è realizzata utilizzando esclusivamente ricevitori radio ad onde corte. Il segnale radio rimanda ad una dimensione invisibile ai sensi nella quale siamo costantemente immersi, una musica senza strumenti, un sonoro senza immagine, inevitabilmente connesso alla sua istanza complementare, l'immagine muta.