Piero Toresella
Mostra personale
Comunicato stampa
I temi di questa personale riprendono quelli che Maria Campitelli e GianCarlo Pagliasso hanno affrontato nel volume, dallo stesso titolo della mostra, edito da Campanotto, nel quale, la ricerca di Toresella intorno al “Rivelare l’invisibile” si sviluppa lungo tre filoni concettuali: la (de)figurazione dell’Eros, Vanitas e Le retour à l’ordre.
La pittura di PIERO TORESELLA
Ci sono dei punti fermi nella pittura di Piero Toresella.
La rete, l’uso di siglare i suoi lavori con un reticolo a larghe maglie che contiene, segna, nega quasi l’immagine dipinta dietro di essa.
L’ambiguità, la possibilità di letture plurime, irrisolte.
L’Anti-contemporaneo, che di primo acchito suona come una condanna dell’attuale, ma che in realtà, senza la linea divisoria in mezzo alla parola (ed ecco subito un’ambivalenza) contiene l’aggettivo “antico”, prima di “nteporaneo”, volendo così inserire la storia nella contemporaneità, in un continuum indissolubile, senza assurde suddivisioni compartimentali. Riflette il pensiero di Jean Clair, per cui i musei specializzati di arte antica, rinascimentale, contemporanea….in realtà spezzano il concetto fluido e ininterrotto del tempo. L’arte contemporanea non vive senza il supporto, il sostrato imprescindibile della storia.
Una pittura –non pittura. Nel senso che nega – scostandosi - il carattere fondante della pittura tradizionalmente intesa, da quella veneziana a quella spagnola, agli impressionisti, cioè la pittura di sommossa materia pittorica, che con le vibrazioni cromatiche, il gioco scoperto delle pennellate, visualizza il mondo circostante e l’atmosfera che l’avvolge. La sua al contrario è una pittura liscia, che smorza l’impulso della materia, le superfici appaiono compatte, senza sbavature, in una definizione asettica, innaturale nelle precise scansioni chiaroscurali. Si sottrae al colore. La sua infatti è una pittura fondamentalmente in bianco/nero, nella persistente volontà di un’espressione contenuta, che rinuncia alle piacevolezze di superficie, a favore di un impellente contenuto concettuale. E’ propriamente una pittura concettuale.
L’uso costante delle fotografia come punto di riferimento da cui nascono le immagini, filtro meccanico che si interpone tra il reale e l’immaginario rappresentato.
L’artificio, incarnato nel ciclo “vanitas” dove il manichino, il simulacro inerte si sostituisce all’umano
Dalla somma di questi punti risulta un perseguito contenimento, un costante controllo della pittura, un suo uso fuori dalle norme conclamate, riducendola quasi a una riproduzione di immagini di estrazione fotografica, in un processo di rarefazione e di ricercata austerità. Il suo infatti è un percorso di svuotamento della pittura, nel senso della materica fisicità cromatica, e di decomposizione della figuralità che non lo portano alla pura astrazione, ma a una sua evanescenza, una sua sostanza prevalentemente concettuale che si identifica nel puro disegno grandioso, nella contrapposizione di masse chiare e scure, con prevalenti effetti plastici, in una sostanziale compressione del rappresentabile.
Nell’era digitale, nella produzione sconfinata di un immaginario di sintesi, che deborda da quello analogico e naturale, stravolgendo la prospettiva lyotardiana di conseguire in arte il concepibile non rappresentabile -.e favorendo la rappresentabilità al di là della capacità concettuale - la pittura, per esprimere il cambiamento, per adeguarsi alle diverse prospettive, deve trovare nuovi percorsi, depurandosi e mimetizzandosi. Facendo proprio quel quoziente di artificio, nei mezzi e nelle finalità di senso, che da decenni ormai coesiste e si fonde con il reale, in una dimensione ormai al di là del “postmoderno”. Toresella si è avventurato nel percorso di rivelare ciò che non si può vedere, mantenendo però una figuralità, al di là dello sbocco verso l’astrazione, additato come unico approdo possibile da Lyotard. Una figuralità (de)figurata, che nel momento in cui si afferma, contemporaneamente si comprime e si svuota, anche di riconoscibilità, rastremandosi in giochi visivi allusivi, che dicono e non dicono, assottigliandosi, spiritualizzandosi in qualche modo verso quel sublime che attraversa la sua tensione espressiva. Un sublime da scoprire oltre le maglie della rete dai mille significati, oltre l’immaginario stesso deprivato delle suggestioni cromatiche, risalendo a un pensiero che si scosta in parte dall’interpretazione schilleriana del sublime e s’invera in questa particolare forma di non-pittura. Toresella infatti parla di un sublime soggettivo al di là di quello che scaturisce dalla contemplazione della potenza della natura, della sua energia persino terrifica, rispetto alla limitatezza umana; un sublime all’interno di noi che l’artista distingue in due momenti che si potrebbero definire, come suggerisce, “esogeno” ed “endogeno”. Il primo riguarda l’individuo, “irrilevante e solitario in rapporto alla grandezza del genere umano”, il secondo riguarda il suo rapporto con se stesso, nella sua dualità di “essere animalesco costretto a soddisfare i bisogni primari della sopravvivenza, sua e della specie” e nello stesso tempo, “capace di elaborare concetti, di avere visioni e intuizioni che sembrano appartenere ad un mondo estraneo a quello corporeo”. Da questa dualità contrapposta, fatta di carne e spirito, nasce l’eterno conflitto che agita la coscienza umana, rendendo tragica la sua dimensione esistenziale, e pertanto iscrivibile nella dimensione del sublime.
Questo pensiero, di autoriflessione del sublime, trapassa i tre cicli artistici proposti qui dall’artista. Sono già nei titoli semanticamente indicativi del suo atteggiamento interiore, della sua Weltanschaung. : Eros verso la (de)figurazione del sublime, Vanitas, Retour à l’ordre.
Nel primo l’ingabbiamento reticolare è persistente, i corpi si intravedono, si alterano, si scompongono o si moltiplicano come nei “frammenti del riflesso” dove una molteplicità di specchi materializza il plurale effetto spaesante. I residui simboli erotici, ingabbiati dalla rete e dai modi riduttivi del racconto, spingono verso una loro contratta sublimazione.
Vanitas è l’esaltazione dell’artificio, attraverso la finzione del manichino, del vuoto d’umanità che si condensa in “sotto il vestito niente”, dover il corpo scompare, restando solo l’involucro, l’apparenza. Un vuoto d’umanità che si può leggere anche nell’eccesso tecnologico da cui oggi siamo pervasi e che determina radicali mutamenti socio-culturali e comportamentali. Ma del pari vi si può intravvedere anche un’eco dechirichiana, col quoziente metafisico che comporta. Il lavoro di Toresella infine, nelle sue diverse componenti, nel connubio di lacerti di reale e di finzione, può bene assumere una dimensione metafisica.
Vi si insinua anche il riferimento mitico, caro a tutta una cultura rivolta al passato, avvertibile soprattutto nei vari “retour a l’ordre” della storia dell’arte moderna. Come gli enigmatici “Achille e Patroclo” divenuti due camicie, una in luce l’altra in ombra, lavoro che aggiorna il “metafisico” in chiave di contingente quotidianità.
Ma in questo ciclo compaiono anche opere singolari come “Sete di geometrica illusione” e “Cala il sipario”, dove protagonista diviene una mano, nel primo caso a scostare una tenda dai curiosi giochi bianco/neri (quasi una citazione “optical”) nel secondo ad aprire un cancello, quest’ultima pervasa da un’ineludibile aura di morte. Sono opere intensamente allusive, simboliche che rivelano l’aspetto molteplice del pensiero di Toresella, dove la morte non sta certo all’ultimo posto.
Retour a l’ordre. Un ciclo che si riempie di significati e di rimandi, non esente una certa ironia che guarda con distacco al proprio operato. Sappiamo tutti cosa significa nella storia dell’arte moderna “ritorno all’ordine”; avviene dopo uno sconquasso, un cambiamento radicale, ritornando a mettere al loro posto i tasselli ribaltati dalla ventata rivoluzionaria che aspirava a modificare le cose. Cioè con le “avanguardie”. Bisogno di ritornare al sicuro, al noto e collaudato, al passato, a ciò che si definisce “classico”, sia pure con le dovute modifiche ed aggiornamenti dei tempi mutati. Per Toresella coincide con il citazionismo di modelli del manierismo e del barocco, non esempi notissimi, tratti da foto di cataloghi d’aste. Si espande in questo modo la vena forse più nota dell’artista, la fusione tra passato e presente, meglio l’ininterrotta continuità temporale perché la citazione storica si completa di solito con una presenza contemporanea. Il racconto assume i connotati della ricchezza linguistica propri della pittura storica, nella parte ripresa da modelli antichi, l’analisi del dettaglio, non la riduzione. Il mito vi abbonda, Andromaca ripudiata da un Neottolemo in vesti cinquecentesche, il sogno di Penelope, Medea e Giasone….
Il grande quadro “L’essenza dell’istante” condensa molte delle caratteristiche connotative di questa fase del lavoro di Toresella. L’andamento compositivo di grande equilibrio nell’equa distribuzione di zone di luce e di zone d’ombra. E all’interno di una zone d’ombra centrale s’annida il protagonista che rimane perciò quasi invisibile e misterioso, mentre sta annusando un profumo. L’”essenza” del titolo, che però, nella consueta ambiguità, può allargarsi ad un significato più intenso e dilatato, l’essenza di spirito, di atmosfera, caratterizzante un istante, e non solo in senso olfattivo. La commistione di antico, - il nudo di schiena, il putto ammiccante - e contemporaneo, per la presenza della figura femminile di destra , figlia del nostro tempo, che vivamente partecipa al piacere del profumo.
Vorrei concludere queste note interpretative del complesso lavoro di Toresella con questa sosta nel gioco di luci ed ombre, doverosamente contenute nella rete, con questa ambiguità, con questa compresenza di storia e di presente, di un tempo eterno , nel lodevole tentativo di raccontare l’esistente nella sua complessità, nelle sua molteplici sfumature di conoscenza e di mistero. Lasciando porte aperte, interrogativi, dubbi, perché le risposte certe sono limitate.
Maria Campitelli