Pietro Diana – Disegni
La linea sapiente di Diana si dipana a svolgere racconti d’ombra, gotici e barocchi, affini a tanta letteratura classica e moderna.
Comunicato stampa
PIETRO DIANA
FA CAPRICCI
Ci son capricci e capricci: quelli infantili, quelli femminili, e quelli musicali, letterari, artistici, che non sono le bizze di soprani e tenori, bensì i fogli di Goya e del Tiepolo, di Salvator Rosa e di Monsù Desiderio, per citare alcuni nomi tra i più noti.
Si possono etichettare come “capricci” anche i recenti disegni di Pietro Diana, che sembra voler accantonare, o quanto meno sospendere, il rigore virtuosistico delle sue acqueforti in favore di una libertà lieve e aerea. Un segno sottile, spesso la linea continua del disegno puro, si articola in uno spazio esteso ed arioso, in cui collocarsi armoniosamente, creando figure fitte, sorprendenti e affascinanti.
In musica per capriccio s’intende una composizione strumentale dal carattere scherzoso ed estemporaneo, giocata sull’estrosità contrappuntistica. Come genere di scrittura ha connotato a lungo le invenzioni letterarie bizzarre, fantasiose, fiabesche o farsesche, irreali, scaturite dall’estro poetico. In arte, già a metà Cinquecento s’indicava con quel termine la “poetica licenza”, l’originalità individuale, la fantasia scatenata che sostituisce “l’imitazione icastica”, la “ragione de le cose naturali”. “Invenzioni capricciose” sono state definite le Carceri di Piranesi, e già in precedenza il termine era stato impiegato per i dipinti dell’Arcimboldi. I più noti, paradigmatici, rimangono tuttavia quelli di Goya, giocati sul doppio registro dell’indignazione etica, civile e sociale, ideologica, e delle incursioni più sbrigliate nell’universo onirico.
Non è questa la sede per delineare una storia compiuta del genere “capriccio”: s’intendeva qui solo richiamare alcuni precedenti, e in particolare il più noto di essi, la raccolta goyesca che avrebbe dovuto avere per incipit il foglio poi collocato verso la metà della serie, con la celebre annotazione, illuminante: “Il sonno della ragione genera mostri”. Dove il sonno vale a indicare sia il predominio dell’irrazionalità sia quell’allentamento del vigile controllo della ragione che consente a sogni e fantasie di affiorare liberamente. Si affacciano così immagini liriche e ironiche, ludiche e orrifiche, le miserie e bassezze umane come gli incubi veri e propri, acquattati nel silenzio e nelle tenebre della notte e dell’animo.
La linea sapiente di Diana si dipana a svolgere racconti d’ombra, gotici e barocchi, affini a tanta letteratura classica e moderna. Scaturiscono dal clima notturno caro già a Novalis, che ne alimentò il suo struggente lirismo, mistico e magico, in cui visibile e invisibile sono intrecciati indissolubilmente. Ma il buio cui attinge Diana comprende anche l’Ombra junghiana, “aspetto nascosto della consapevolezza dell’io”, che include i lati oscuri della personalità individuale ma altresì l’intero inconscio collettivo, la sterminata sfera degli archetipi e dei miti. I “mostri” sono pertanto gli incubi grotteschi, le creature degli abissi e del mondo fiabesco, le gargouille, le parti represse dell’animo umano, istintuali, ma anche tutto ciò che è atto a sorprendere, che provoca stupore, che fa mostra di sé perché insolito, anomalo, ignorato, esoterico: la visionarietà nel suo complesso.
Pietro Diana appoggia la penna sul foglio, in un punto apparentemente casuale, in realtà rispondente a complessi equilibri di proporzioni armoniche, e inizia un racconto per immagini minute, senza scelte programmatiche preliminari se non la spontaneità. La mano si muove quasi da sé, richiamando il ricorso alla scrittura automatica cara ai surrealisti, e di sapore surrealista è il risultato, nel senso originario di puntare a cogliere una realtà altra, sovraordinata alla quotidianità, ben più complessa e completa di quella consentita dagli schemi mentali consueti: un Supernaturalismo, un’espressione diretta del “mondo interiore” attraverso “l’automatismo psichico puro”.
E’ stato fatto osservare da molti che nel Goya dei Capricci è presente un’anima duplice anche a livello stilistico, oltre che tematico, riecheggiando ora l’infittito reticolo di Rembrandt ora la luminosità vaporosa e la spaziosità care a Gian Battista Tiepolo. In questi disegni Diana opta nettamente per la seconda polarità. Se le immagini emergenti dalle tenebre sono portate alla luce, che sia luce piena, abbagliante: la luce della conoscenza e della consapevolezza.
Conoscenza e consapevolezza dell’autore, beninteso. Ma il linguaggio artistico non è mai denotativo, univoco. Il suo suono è simile a quello della viola d’amore: ricco d’armonici, echi, consonanze che accompagnano e arricchiscono ogni nota emessa. Pur affiorate in piena luce, le immagini di questi disegni continuano ad appartenere al mondo della notte, dei sogni e della fantasia: non sono solari ma al più lunari. Non certo in senso fisico, bensì in quanto riferibili a una dimensione interiore visionaria, consona al clima romantico o barocco. Non è una novità, per Pietro Diana: il rigore estremo, il raffinato virtuosismo tecnico, la finezza dei suoi segni, la purezza tanto composta che si direbbe neoclassica delle sue incisioni, tutto ciò non basta a celarne un’inquietante misteriosità, palese in suoi lavori lontani solo nel tempo, in primo luogo i cicli dei Castelli fantastici e dei Mostri, che già dai titoli rivelano la loro origine visionaria. “L’universo indagato è drammatico, concernendo le incognite del divenire, individuale e collettivo, e le oscurità d’abissi impenetrabili alla ragione e all’etica”, annotò lo scrivente in occasione di un’antologica, or è un decennio. L’osservazione è valida tuttora, per i nuovi disegni, nei quali tuttavia è concesso uno spazio maggiore alle componenti, pur non inedite, dell’ironia e del senso ludico. Si può sorridere di tutto, e la consapevolezza della maturità, quella che consente di conoscere come vanno a finire tutte le storie, permette di accostarsi anche ai drammi con una punta d’umorismo. Sorridere anche di sé, e delle proprie angosce, è una conquista più che rispettabile.
Ecco allora che le teorie di figurine che si stagliano nette nella luce, talora solo fantasiose talaltra più grevemente della natura cupa degli incubi, muovono al sorriso complice più che al terrore condiviso. Sfilate d’animaletti bizzarri o di figure deformi, questi cortei sono sempre eleganti e armoniosi, e invitano a cogliere il grottesco delle vicende umane, che pur comiche sono raramente. Se la realtà, sgradevole, non si può modificare … per difenderci non resta che imparare a riderci su.
PIER LUIGI SENNA