Prehensio animi
“Prehensio animi” (Prigione dell’anima), la personale dell’artista torinese Monica D’Alessandro.
Comunicato stampa
“Rapsodo” (2012), “Lume composito” (2009), “Mandala” (2011), “Visione” (2010), “Icona” (2008), “Cortile” (2012), sono i titoli delle sei grandi video installazioni di un progetto espositivo che assume come modello teorico le riflessioni del situazionista Guy Debord e del sociologo Zygmunt Bauman sulla “società dello spettacolo”.
L'iperconsumismo contemporaneo, quell'attività materiale e di status in cui nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce, riassunto nella frase “consumo, dunque sono”, si riverbera nella rappresentazione digitalizzata dell'artista, attraverso un gioco di rimandi e di riferimenti ai linguaggi e ai “contenuti” dei media. Per Monica D’Alessandro, la condizione umana è imprigionata in una dimensione virtuale senza vie di fuga, dove la luce fredda del monitor televisivo è la patina che riveste ogni cosa.
“Prehensio animi” è dunque una raccolta di sei strategie contro i modelli dominanti, espresse attraverso il più coerente dei mezzi e maggiormente eclettico, in una simbiosi con il “nemico” tale da trasformare il mezzo stesso in critica militante.
“In “Rapsodo” - spiega l’artista - un attore, Mino Manni, declama, apparentemente in ordine sparso, slogan pubblicitari, mescolati a massime latine tradotte. Letta con coscienza, la rapsodia è invece una citazione della realtà umana che ci ha reso folli e insicuri”. “Lume composito”, - prosegue la D’Alessandro - è un rosone virtuale dal quale s’intravede il mondo. Una vetrata di spot televisivi che formano un cicaleggio babelico che ha sostituito uno spazio sacro”. Con “Visione”, ho voluto emulare invece la scatola televisiva, nella quale avviene uno zapping umano, mentre “Icona” è una vetrina-teca dove un manichino-statuetta, con sembianze umane, piange lacrime di sangue. “Icona” è un miracolo della consacrazione all’acquisto e all’effimero. In “Mandala”, che vuol dire “essenza” e “contenuto” nella tradizione tibetana, la polvere che lo compone è formata da pixel policromi televisivi. Ciò che mi interessava era di mettere in evidenza la trasformazione del significato del simbolo e la sua negazione, diventando virtuale. Infine, con “Cortile”, ho voluto fare un omaggio a Guy Debord, inserendo l’incipit del suo libro La società dello spettacolo (“Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli). “Cortile” è un insieme di situazioni abitative che formano una facciata virtuale, dove ogni finestra si spegne e si riaccende su tutto ciò che era direttamente vissuto e ora si è allontanato in una rappresentazione.”