Project room #8 – Irene Gittarelli
La fotografia di Irene è luce, ombra e posa. È importante riconoscere la sua significazione; non solo nelle forme delle statue greche in riposo dalla loro postura, ma anche nei gesti passeggeri e d’attesa, che indicano l’espressione di affetti riconoscibili – un linguaggio universale, non deteriorato da intellettualismi o gravità d’orgoglio.
Comunicato stampa
La parola “corpo” (in greco σώμα) originariamente – per esempio in Omero – significava “cadavere”. Successivamente, l’area semantica del termine abbracciò il corpo animato in generale; poi si estese ulteriormente, coinvolgendo anche gli oggetti inanimati, i quali condividono con il corpo due proprietà: la percettibilità e l’essere racchiusi in limiti determinati. Per opposizione, nacque poi l’accezione di “incorporeo”, ovvero ciò che non è palpabile, né visibile; ciò che è privo di delimitazioni e quindi in-finito. La progressione semantica della concezione di corporeità e il dialogo tra finitezza e indeterminatezza stanno alla base dell’opera di Irene Gittarelli (Torino, 1991), che traduce in una fitta trama reciproca il tangibile e l’invisibile, l’organico e l’inorganico.
La fotografia di Irene è luce, ombra e posa. È importante riconoscere la sua significazione; non solo nelle forme delle statue greche in riposo dalla loro postura, ma anche nei gesti passeggeri e d’attesa, che indicano l’espressione di affetti riconoscibili – un linguaggio universale, non deteriorato da intellettualismi o gravità d’orgoglio. I particolari fisici dimostrano, sfidando la precisione del volto, eleganza, scherno, vanità, malinconia; le curve e gli angoli, nel loro biancore, ricercano una purezza perduta nella finitezza dell’umano. Un atteggiamento di compromesso tra gesti espressivi e cenni che celano un enigmatico doppio senso. L’adorante, il supplichevole, il rassicurante; sono prototipi da riconoscere nella forza di alcuni gesti, come quelli di accoglienza o di protezione, di tranquillità o di febbrile severità. Contro l’idea platonica di corpo, però, le statue di carne di Irene appaiono prive della funzionalità delle forme classiche, generando un nuovo equilibrio che rinnega la perfetta rassomiglianza con la natura e che si confronta con la delicatezza in piena libertà di rivelazione. L’uso della farina è uno dei simboli di questo disconoscimento: contrario al biancore del marmo, l’effetto primitivo del materiale umile, screziato e diversificato allude all’incoerente, al discrepante, al contraddittorio tra anima e figura – ma anche alla caducità della materia stessa, sempre pronta a morire e rinascere nella moltitudine di senso.
È un gioco di ambivalenza tra il valore del corpo culturale e quello naturale: l’artista vive i suoi soggetti come organismi da sanare; come carne da redimere; come inconscio da liberare; come supporto di segni da trasmettere. È la scoperta continua nelle pieghe della presenza, di intelligente armonia e di enigmatica portata semantica; è il linguaggio segreto delle cose silenziose, appunto. Tutto in un errare seducente, che fa disperdere l’occhio dell’osservatore nella moltitudine delle crepe, nei punti di luce e nelle possibilità umane.
Federica Maria Giallombardo