Quadreria
Quattro pareti per quattro artisti che, attraverso linguaggi e media differenti, si relazionano con l’ambiente dando vita ad una “quadreria contemporanea”.
Comunicato stampa
La mostra “Quadreria” era stata programmata per il mese di marzo 2020 quando l’arrivo della pandemia ha visto tutti fermarsi. È trascorso qualche mese e ci troviamo nuovamente in una situazione di privazioni. Crediamo che continuare a divulgare arte sia il miglior antidoto per non affondare in un profondo torpore, così abbiamo deciso di riproporre il nostro progetto con lo stesso entusiasmo e la stessa modalità immaginata la scorsa primavera.
L’idea di “Quadreria” prende spunto dalle antiche quadrerie tardo-rinascimentali e barocche, dove l’arte di stupire e “annientare” benevolmente il visitatore dando un’immagine di fasto e solennità erano il modus operandi dell’epoca. Dalla metà del Seicento gli ambienti domestici e gli spazi di rappresentanza dei palazzi nobiliari acquistarono sempre più importanza. I saloni per ricevimenti, le gallerie, le librerie, le sale di lettura, diventarono il contesto espositivo privilegiato per le collezioni d’arte. Le opere rivestivano le pareti fino a tappezzarle raggiungendo il soffitto, senza tener conto di una specifica visibilità. E la disposizione non seguiva particolari criteri cronologici o di appartenenza di scuola, le opere venivano accostate secondo il personale gusto del collezionista e spesso in base alla cromaticità, al soggetto o alla dimensione. L’idea di “accumulo” e di possesso, tipico delle Wunderkammer, le cosiddette “camere delle meraviglie”, trova analogia nella modalità di allestimento delle antiche quadrerie, una disposizione volta a destare soggezione e stupore nel visitatore. Oggi, lo spazio espositivo di Studio SALES di Norberto Ruggeri, reso ancor più affascinante dai suoi alti soffitti e dalla grande vetrata che affaccia sui palazzi umbertini di Piazza Dante a Roma, diventa il luogo “intimo e domestico” per far rivivere questa esperienza. Quattro pareti per quattro artisti che, attraverso linguaggi e media differenti, si relazionano con l’ambiente dando vita ad una “quadreria contemporanea”.
“Never say Bullshit” è la frase che Alighiero Boetti su richiesta di Maurizio Cattelan, scarabocchiò su un poster di Jenny Holzer, artista che rappresentava il Padiglione americano alla Biennale di Venezia del 1990. Boetti, firmando il poster come fosse un suo lavoro personale, si era appropriato in maniera semplice dell’opera di un altro: “lavorare senza lavorare”. Riccardo Beretta rimodula la frase come un cruciverba, la cuce su velluti precedentemente dipinti con pigmenti naturali, ne compone dei piccoli arazzi come scacchiere colorate. La citazione, attraverso la delicata e antica arte del ricamo, diventa un messaggio diretto per l’osservatore. A fare da contraltare grandi campiture di tessuto dai colori accesi che riportano raffinati inserti di parole e sottili fili intrecciati dal font decò.
Silvia Celeste Calcagno si appropria della parete, la tappezza, la divora presentendo una Roma reale e immaginaria, infiammata, fatta di squarci di vita, paesaggi urbani, angoli nascosti, sguardi rubati e traslata con altre visioni dove i confini si intrecciano. Una Roma contaminata da una seconda pelle. Tasselli di un mosaico senza confini per un lavoro site-specific e inedito pensato ad-hoc per l’occasione e che rispecchia il suo operare autobiografico. Un omaggio alla città eterna dove potersi perdere e ritrovarsi tra qualcosa di definito o inatteso, dove le immagini della vita che scorre prendono corpo con la materia del grés in sottili lastre attraverso la tecnica sperimentale di cottura fotografica da lei ideata. ”Cartoline 2.0”, dall’alba al buio della notte, dalle piazze ai vicoli nascosti, esistenze sovrapposte dove pezzi di galassie, deserti e misteriosa natura ci conducono in una nuova realtà.
Il lavoro di Stanisalo Di Giugno gioca sulla disposizione rigorosa di una serie di lavori inediti, acrilici su tela in formati diversi e lasciati liberi dal telaio, come fogli di carta appuntati. La trama del colore assume tridimensionalità lasciando spazio a giochi di luce e ombra. La sua produzione è legata da un comune denominatore che è quello di mostrare una percezione diversa della realtà. Lo studio attento dei volumi, delle forme e del colore permette all’artista infinite soluzioni e possibilità al confine tra pittura e scultura. Come il gesto semplice e ripetuto della piegatura della tela o del passaggio ritmico della spatola che rende corpo al colore. Una nuova visione di raffigurazione attraverso l’illusione materica.
Nei dipinti di Vincenzo Simone l’ascendente storico post-impressionista è dichiarato. Un vaso di fiori colti en plein air, la trasparenza di un bicchiere di vetro, la frutta composta sul tavolo sono il richiamo alle nature morte di Paul Cèzanne e agli oggetti del quotidiano di Giorgio Morandi. Quella di Simone è una quadreria composta da pochi esemplari, delicati oli su tela di piccole dimensioni, preziosi come miniature. Una pittura definita “da camera”: l’artista prepara le tele usando del lino fine per camice e guarda oltre, immaginando la sua composizione. La pennellata è calibrata e dosata al millesimo, le tonalità pastello vibrano attraverso la leggerezza e trasparenza del colore in un’atmosfera di equilibrio e sospensione. Ciascun lavoro, cattura l’attenzione come fosse una poesia da leggere.