Queen of the black black
Le opere in esposizione svelano come, a dispetto delle palesi diversità, il dialogo costituito dalle due artiste sia, in realtà, serratissimo.
Comunicato stampa
La Galleria Vistamare inaugura il 31 maggio 2014 una mostra di Louise Nevelson e Mai-Thu Perret.
Le opere in esposizione svelano come, a dispetto delle palesi diversità, il dialogo costituito dalle due artiste sia, in realtà, serratissimo. Ai totem e muri in nero, che assieme ai collage definiscono l’opera della Nevelson, fanno da chiaro contrappunto le delicate sculture in ceramica, le linee trasparenti dei neon della Perret.
In un gioco di rimandi e risposte, l’assenza di colore, l’opacità e lo spazio ‘ombroso’ dell’una si congiunge perfettamente alla visione luminosa dell’altra. Le strategie di accumulazione e oscuramento dialogano in un medesimo canto con la luce e l’evanescenza, rivelando un interesse comune per immagini ancestrali, per scenari ieratici dalla fascinazione cimiteriale.
Entrambe le artiste sono intrise fortemente di una poetica femminista, la Nevelson essa stessa una sorta di figura protofemminista, nella volontà ferma di vivere una vita indipendente e libera, dedita in modo esclusivo alla sua arte; Perret, costantemente impegnata nello studio delle immagini mitiche dell’universo femminile, conduttrici di una nuova simbologia sociale. Ai grandi assemblages in mostra come “City series” 1974 e “Tropical landscape I” 1975, architetture iconiche del lavoro di Louise Nevelson, Mai-Thu Perret risponde con sottili segni grafici di luce e soprattutto nel lavoro “Flow my tears”, presentato alla Biennale di Venezia del 2011 e ricco di influenze surrealiste, l’artista svizzera sembra riferirsi alla nera silhouette della grande scultrice americana, generando una sorta di doppio ideale del personaggio drammatico che fu la Nevelson.
Il titolo stesso della mostra, una citazione tratta da una poesia di Lady Lou, identifica la fisionomia artistica e personale della scultrice americana e al tempo stesso sottolinea lo studio delle teorie femministe portate avanti da Perret.
Louise Nevelson (Kiev, 1899 – New York, 1988) è “la grand dame della scultura contemporanea”. Figlia di ebrei russi, emigrata negli Stati Uniti nel 1905, diventa una dei più illustri rappresentanti dell’arte americana del secondo dopoguerra. Intelligente, bellissima, anticonformista: la sua è una biografia pittoresca e sopra le righe. Vive l’arte come una predestinazione religiosa, studia pittura, scultura, canto e modern dance. Si avvicina da subito al cubismo e alle altre avanguardie europee, così come all’espressionismo astratto americano. Frequenta i grandi nomi dell’arte del ‘900 e assiste Diego Rivera nei murales di New York e Città del Messico. La sua vita e opera si fondono in una totalità assoluta.
Dopo le iniziali sperimentazioni di materie come la terracotta e il bronzo, negli anni ‘50 avvia la prima serie di sculture in legno, create con assemblaggi di oggetti di scarto, riciclati da lei. L’arte dell’assemblaggio diviene il suo punto di forza: i confini indistinti tra scultura, collage e lavorazione del legno, generano architetture astratte, monumentali e barocche, che suggeriscono un mondo poetico e immaginario. Al legno di recupero, trovato e raccolto per le strade di New York, amato per la memoria che porta con sé, ridà vita, offrendogli una dimensione spirituale, superiore a quella per la quale era stato inizialmente ideato. Le sue sono creazioni monocrome, uniformanti: il nero si erge su tutti gli altri colori, a volte il bianco e l’oro. Non vuole che il colore la aiuti. L’opera in nero si fa aristocratica, determinando sentimenti di totalità, pace, grandezza ed eccitazione. Inoltre le consente di giocare magistralmente con l’ombra, che diviene elemento costitutivo del prodotto artistico, consentendo anche di accentuarne la dimensione teatrale. Le sculture, dapprima forme libere, divengono totem, colonne e pareti generate da una giustapposizione di moduli alveolari, ognuno dei quali con una sua forma e tutti unificati dal medesimo colore. I suoi assemblages sono fitti, magnifici, sconcertanti: racchiudono la preziosa dimensione del tempo e sembrano guardare a una cosmogonia mitologica. Sono presenze ossessive, la cui complessità strutturale, compositiva e culturale trova la sua strada in modo assolutamente intuitivo.
Evitando le diverse etichettature (cubismo, surrealismo, minimalismo, femminismo etc..) ed evolvendosi rispetto ai chiari riferimenti all’arte africana, precolombiana e indo-americana, Louise Nevelson dà vita a un linguaggio potente, autonomo e fantastico.
Nel 1959 il Museum of Modern Art di New York acquista una sua opera e altre entrano nelle collezioni del Whitney Museum e del Brooklyn Museum di New York, dellʼAlabamaʼs Birmingham Museum, del Museum of Fine Arts di Huston e del Fansworth Museum di Rockland.
Mai-Thu Perret è un’artista svizzera nata a Ginevra, conosciuta in Europa e America per una tecnica multi-disciplinare ambiziosa che contempla scultura, pittura, video e installazioni. Il suo è un corpus artistico complesso che svela una relazione tra politiche femministe e riferimenti letterari, teorie estetiche delle avanguardie del secolo scorso e produzione artigianale riferita in special modo a movimenti del design come l’arts and crafts e il costruttivismo sovietico.
Attraverso la ricerca di un utopistico eterno femminino, Perret mette in mostra opere che generano veri campi di forze, oggetti la cui funzione è fortemente intrisa dei sistemi sociali da essi abitati. La diversità delle tecniche utilizzate rende manifesta la relazione tra formalismo puro, applicato all’arte minore dell’artigianato e spiritualità; approcci all’apparenza contraddittori che indagano il rapporto tra oggetto e sua immagine.
Le sue ceramiche smaltate appaiono come pitture congelate o meglio fossili di pittura, che guardano a realtà oggettive disparate (teschi, uova…), così come a immagini astratte, non rappresentative (agglomerati biomorfi, forme geometriche, griglie circolari).
La tecnica diviene strumento atto a risolvere i problemi compositivi della pittura astratta.
Il suo lavoro contrappone all’universo maschile una genealogia tutta femminile, che trae forza da plastiche immagini ataviche.
Mai-Thu Perret ha vinto nel 2011 lo Zurich Art Prize e Le Prix Culturel Manor 2011. Ha partecipato alla mostra ILLUMInations (a cura di Bice Curiger) della 54ma Biennale di Venezia. Sue mostre personali includono Spectra, Haus Konstruktiv, Zurich (2011); Mai-Thu Perret: The Adding Machine, Aargauer Kunsthaus, Aarau; travelling to Le Magasin, Grenoble (2011); An Ideal for Living, Università del Michigan Museum of Art, Ann Arbor (2010); Mai-Thu Perret: New Work, San Francisco Museum of Modern Art (2009), 2013, Aspen Art Museum (2009); 2012, Timothy Taylor Gallery, London (2008); Crab Nebula, Kunsthalle Sankt Gallen (2008); Land of Crystal, Bonnefanten Museum, Maastricht (2007). Nel 2006 ha avuto una mostra personale anche presso la Renaissance Society, University of Chicago, e nel 2005 al Centre d’art contemporain, Geneva.
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On 31st May 2014 Galleria Vistamare inaugurates an exhibition of work by Louise Nevelson and Mai-Thu Perret. Despite their obvious differences, the works on show reveal the two artists engaged in what is, in reality, an intense dialogue. The black walls and totems that, along with her collages, characterize Nevelson’s work offer an obvious contrast with Perret’s delicate ceramic sculptures and the transparent lines of her works in neon. In a playful game of contrasts and cross-references the absence of colour, the opacity and the “shadowy” spaces of one artist are perfectly paired with the luminous vision of the other. Strategies of accumulation and redaction dialogue harmoniously with light and evanescence, revealing a shared interest in ancestral images and in the sepulchral fascination of certain hieratic scenarios.