Quindici Pezzi Facili
Il titolo “Quindici pezzi facili”, che richiama sfacciatamente il quasi omonimo film di Bob Rafelson del 1970 (storia di un uomo braccato dalla vita che cerca e non trova, che fugge e si perde senza soluzione di continuità), sta a indicare l’obiettivo di una sorta di deriva visiva che scavalca il limite di ogni spazio e di ogni figura (quadro, galleria, artista), per farsi manifestazione effimera, che sparge idee più che soluzioni, processi più che compimenti.
Comunicato stampa
“L’arte è un mélange di vaudeville, di gag, di gioco infantile, di Spike, Jones e Duchamp”. Così scriveva nei primi anni ‘60 il guru di Fluxus George Maciunas. Certo, una mostra non può essere un movimento, una sequenza di “opere allo sbaraglio” non ha nulla a che vedere con le manifestazioni effimere di quell’ultima, utopica avanguardia che è stata Fluxus. Eppure alcuni sintomi che attraversano l’intera esposizione sembrano venire proprio da quel crogiolo inafferrabile di azioni, riti, lavori iniziati e mai finiti. Già il titolo “Quindici pezzi facili”, che richiama sfacciatamente il quasi omonimo film di Bob Rafelson del 1970 (storia di un uomo braccato dalla vita che cerca e non trova, che fugge e si perde senza soluzione di continuità), sta a indicare l’obiettivo di una sorta di deriva visiva che scavalca il limite di ogni spazio e di ogni figura (quadro, galleria, artista), per farsi manifestazione effimera, che sparge idee più che soluzioni, processi più che compimenti.
Ma pure quel disegno a china dell’illustratore ceco Adolf Hoffmeister che funziona da “immagine/icona” della rassegna e che mostra la sagoma di un Kafka spaesato in mezzo ad una congerie di valigie, borse, bauli, sottolinea che, se un “concept” c’è, non vuole essere qualcosa di preciso, determinato, durevole. Non c’è una cronologia, anche se ci sono autori storici (Enrico Baj, Claudio Costa, Jean Dupuy, Ken Friedman, Maurice Henry, Aldo Mondino, Otto Muehl); non c’è un filo conduttore, anche se tutte le opere si pongono sotto il segno della precarietà, del frammento, della grazia dell’imperfezione; non c’è neppure la caccia ad assonanze invisibili, a corrispondenze celate tra repertori del passato e nuove ricerche (quella di Andrea Bianconi, Clara Brasca, Alessia Cargnelli, Daniele Girardi, Daniele Giunta, Santiago Picatoste, Silvano Tessarollo).
Forse si può individuare una silenziosa dedica al disegno, una testimonianza di affezione al foglio. In mostra infatti sono in bella vista appunti rapidi, abbozzi possibili, tracce occasionali, annotazioni private. Studi preparatori per un’opera a venire o rielaborazioni e riflessioni su opere già eseguite. Solo che qui si incontrano anche collage, foto, video. E allora ogni discorso sull’umiltà del disegno o sulla sua mancanza di qualità, vanno a farsi benedire. Magari è opportuno riprendere in mano il remissivo aggettivo del titolo, e cioè “facili” (inteso nel senso di fragili, inconstituiti, inevoluti). Esso allude ad un mondo che non ha più (o non ancora) un suo luogo, una sua definizione, che non può essere circoscritto in un ambito determinato, che non è più “il luogo della storia” (almeno di quella con la “S” maiuscola), ma il luogo di tante piccole storie che si rarefanno o si dissolvono incessantemente, come è sempre accaduto anche in Fluxus (che in diversi tempi la Galleria ha indagato da più angoli critici). Così, alla fine, questa mostra, che pare non avere una sua specifica identità, ha il volto stesso della galleria: quello dei suoi sogni e delle sue scommesse.
(dal testo di Luigi Meneghelli)