Regina Landi – Archivi
Archiviare, cioè allineare o stipare ordinatamente nelle sue teche da appendere al muro, formine, figurine, penne, matite, animali, statuine, scatole del cucito, macchinine, uccelli, frutta, tavole didattiche, cucinette … Piccole costruzioni per raccogliere la contabilità dell’infanzia, ma …
Comunicato stampa
I ragazzi di una volta giocavano a combinare figurine, formine, soldatini, Meccano, Lego. Poi ci fu anche una moda, quando le linotype a piombo vennero smantellate, dei cassetti tipografici che, divisi in piccoli scomparti, contenevano i caratteri mobili con cui si formavano le parole. Riciclati al muro, divennero contenitori di oggettini, chiavi, souvenir.
Ed ecco Regina Landi archiviare, cioè allineare o stipare ordinatamente nelle sue teche da appendere al muro, formine, figurine, penne, matite, animali, statuine, scatole del cucito, macchinine, uccelli, frutta, tavole didattiche, cucinette … Piccole costruzioni per raccogliere la contabilità dell’infanzia, ma altrettanto della sua proiezione nella vita adulta: ricordano l’abaco, che era tavola per fare i conti elementari, ma anche elemento architettonico.
Mettere in gioco il gioco è stato uno degli aspetti fondanti dell’arte del ‘900 (“Ceci n’est pas une pipe” scriveva René Magritte sull’immagine di una pipa, negando l’evidenza dell’oggetto, in nome della sua proiezione mentale) nell’esigenza di ribaltare le convenzioni liberando i giocattoli dal baule in soffitta nel quale erano rinchiusi. Un’esigenza proiettata su un crinale paradossale tra realtà e stupore, tracciato da una storia secolare di rivolgimento del realismo minuto in indagine delle pulsioni e dell’inconscio.
Siamo sempre di fronte allo stesso manifestarsi di un disegno delle cose, è solo questione di regole del gioco. Invenzioni sottili nascono spesso da processi di semplificazione, e dai materiali quotidiani, dentro le sorprese dei meccanismi combinatori del linguaggio e della visione, con la sensibilità alle minime variazioni, ai più lievi spostamenti percettivi e affettivi. Questa giocosità dell’intelligenza, questa ironia ludica è intimamente seria, nel rivendicare la capacità di sorpresa e invenzione continua propria di ogni essere umano, da trovare nella semplicità della vita di ciascuno di noi.
Opere così apparentemente allineate e uniformi nel formato ci sono dunque offerte da Regina Landi come esercizi per provare a cambiare qualità e luogo alle cose conosciute. Nel suo bricolage, celebra anche quei valori ornamentali e decorativi che pur partecipano della sorpresa del mondo, in un gusto di trovarobato multicolore e luccicante - da mercato delle pulci - di giocattoli, chincaglierie, passamanerie, cancellerie. Un vero e proprio inventario degli oggetti e delle figure, nel gusto di tutte le enumerazioni e di tutti gli accostamenti possibili, in vista di pastiche e puzzle metamorfici e metaforici.
Il gioco, dunque, come applicazione di regole per giocare e il gioco come sistema mentale teso a rappresentare un modello intorno al quale si è sviluppata la nostra formazione all’età adulta, la nostra visione del mondo. In fondo, nelle teche di Regina Landi affiora il desiderio di rivivere il senso della misura che ha tracciato i confini della classicità come un gioco della memoria che passa attraverso gli strumenti dell’infanzia e della decorazione. C’è un preciso senso dell’ordine che si è tramandato nelle arti decorative, nella ripetitività modulare di motivi, in un equilibrio ritmico che percepiamo come bellezza, in corrispondenza con un “canone”. Ma c’è anche la funzione propria della tradizione decorativa di avvicinamento a stilizzazioni magiche, alla ripetizione di motivi ancestrali con significati taumaturgici, propiziatori.
C’è altrettanto il tentativo di leggere i comportamenti quotidiani, le forme collettive d’una civiltà apparentemente tutta pratica e consumistica. Gli archivi di Regina come tavole enigmistiche allineano sistemi di oggetti che sono emblemi della vita dei nostri ultimi decenni. Le citazioni, i fantasmi della cultura e del gioco, i numeri e gli alfabeti, gli oggetti-simbolo della scuola e dell’educazione dei maschi e delle femmine si dispongono nelle caselle di una partita a scacchi, dove si sovrappongono rapporti geometrici e piccoli misteri alchemici.
C’è uno sprizzo d'ironia dadaista, che fa la grazia d’intelligenza acuta e leggera dell’artigianato di Regina, quando sembra anche alludere coi suoi ricettacoli ad una condizione femminile storica, laddove pare tramandare l’antica parsimonia della massaia che tiene ordinati i cassetti e la dispensa. Ma qui è un esercizio diaristico di “cassetti dell’anima”, di velamenti-svelamenti tra teche e custodie, tra polvere del tempo e fragranza allusiva di un bazar delle voglie più segrete.
Nel suo gioco, nella sua ironia, c’è dunque una necessità di forma etica ed ecologica, contro lo spreco delle cose e dell’ambiente, e il sentimento che accompagna questo agire è dolce, affettuoso, con tenerezza fanciullesca, con grazia attonita di esploratrice a ritroso nelle stanze dei giochi e degli abbecedari colorati. Ma al fondo, c’è sempre una sospensione fra detto e non detto, un’allusività, in quell’entrare e uscire tra figurazione e astrazione, che dà una ben equilibrata tensione tra il rispetto d’uno stereotipo (un decoro) e lo scatto verso l’originalità, la pronuncia in prima persona.
Nonostante tutta l’ansia di costruzione, incasellamento e decifrazione, Regina Landi può trattenere solo tracce, indizi e profumi di una infanzia sentimentale che vorrebbe portare con sé per sempre. Gli archivi appesi al muro diventano teatrini dello struggimento sul tempo che non torna. È così che una natura morta, un assemblaggio di oggetti, un puzzle di figurine si fa ritratto e autoritratto (storia di formazione, storia di famiglia, storia di incontri). Si insinua una vocina impertinente, che ti ricorda che dallo spazio dell’infanzia continuano ad affiorare piccoli, piccolissimi relitti di grandi miti.
Fausto Lorenzi