René Mayer – Mutazioni furtive
Nella serie Mutazioni furtive, che dà il titolo all’esposizione, l’artista svizzero usa un unico oggetto reale in gran quantità e ripetuto in modo seriale, dalla forma rotonda: le fiches in plastica.
Comunicato stampa
La pittura astratta dell’artista svizzero René Mayer nasce nella Langa astigiana, nel Sud del Piemonte, il luogo del suo “buen retiro”. Qui costruisce le sue opere pittoriche con perizia artigiana, in un esercizio di concentrazione solitaria immerso nel paesaggio, e qui SAB – Spazio Arte Bubbio, un ex impianto di imbottigliamento diventato un luogo per l’arte contemporanea, ospita la mostra, dal 14 giugno al 18 agosto, Mutazioni furtive, a cura di Luca Beatrice, con trenta tra le sue realizzazioni più recenti.
Dal suo debutto nel 1972, René Mayer ha prodotto oltre 560 opere, delle vere e proprie costruzioni creative in cui sperimenta, mescola e a volte inventa tecniche. Nella serie Mutazioni furtive, che dà il titolo all’esposizione, usa un unico oggetto reale in gran quantità e ripetuto in modo seriale, dalla forma rotonda: le fiches in plastica che si usano nei casinò al posto del denaro. Affronta il legno del telaio, stende il tessuto e prepara la vernice con operazioni artigianali, poi pone il supporto in orizzontale e utilizza l’acrilico mescolato a pigmenti in polvere e realizza le sue opere strato dopo strato, passaggio dopo passaggio. I gettoni da gioco vengono gradualmente coperti da un secondo colore, in modo quasi impercettibile e posizionati sulla tela con precisione millimetrica. Per l’artista simboleggiano «l’irresponsabilità della nostra civiltà – spiega -. Giochiamo con la terra come se fosse un casinò, ma in questo gioco siamo perdenti». Al centro della sua riflessione c’è dunque l’ambiente: le impercettibili Mutazioni furtive sono quei piccoli comportamenti quotidiani a cui non si presta attenzione ma che invece, a metterli in fila ordinati come fiches, risultano la concausa di numerosi ed evitabili disastri.
TESTO CRITICO DI LUCA BEATRICE
L’arte astratta oggi mantiene parentele con la tradizione novecentesca ma, allo stesso tempo, inserisce al proprio interno elementi nuovi. Se l’immagine nella pittura parla una lingua esplicita e immediatamente dialoga con la realtà, l’astrazione pur muovendosi per segni e simboli non rinuncia certo a voler dire qualcosa, attraverso una strada più impervia e per certi versi anche più interessante. Basti visitare Stranieri ovunque, la mostra che dà il titolo alla Biennale d’arte di Venezia curata da Adriano Pedrosa: la pittura astratta è ancora protagonista nelle ricerche di artisti che giungono da diverse parti del mondo, molti dal cosiddetto Global South, e nelle loro opere la texture cromatica, gli interventi segnici o gestuali riflettono al contempo di argomenti ai limiti dell’analisi sociale e politica.
Pur non disconoscendo la centralità della seconda stagione dell'astrazione, a partire dal 1950 quando viene fondata la Scuola di New York, se ci fermassimo lì, come spesso accade, e agli eredi diretti, faticheremmo a comprenderne i profondi mutamenti che l'hanno traghettata fino a oggi. Un testo davvero fondamentale per decodificare il presente è il volume di Pepe Karmel, L'arte astratta. Una storia globale, pubblicato in Italia da Einaudi nel 2021. La tesi consiste nel rovesciare la prospettiva critica sulla pittura astratta proprio a partire dalla globalizzazione. Non solo arte americana per eccellenza, ma fenomeno che si estende ovunque, inserendo accanto alla prospettiva individuale (anzi individualistica) del pittore l'esperienza sociale. E non solo dunque l'elevazione spirituale dell'astratto, ma anche temi attuali come «la razionalità utopistica della tecnocrazia, l'euforia dell'indipendenza postcoloniale, il tumulto della globalizzazione e l'orrore delle dittature militari».
Basta dunque calare l’arte astratta nella realtà per collocarla nel nostro tempo? Fino a un certo punto, perché come scrive l’artista e storico Roberto Floreani nel saggio Astrazione come resistenza (De Piante, 2021), “l’astrazione contemporanea… può sembrare appartata, spesso silenziosa, raccolta, a tratti sotterranea, pur annoverando, ancor oggi, testimonianze costanti e attendibili in ogni angolo del mondo, ricca di una continuità consapevole della portata storica della sua origine. Astrazione che si muove, secondo tradizione, per piccoli passi ponderati ma inesorabili, scanditi da una ricerca il più delle volte alimentata da testi illuminanti: con buone ragioni, si può quindi affermare che l’astrazione gode oggi di una continuità selettiva e costante attendibilità nel contemporaneo”.
Si inserisce dunque appieno nel dibattito sull’attualità della pittura astratta il lavoro dello svizzero René Mayer, la cui ricerca ventennale dopo essere passata attraverso l’immagine ripetuta che dunque non escludeva la matrice pop, approda a soluzioni interessanti, in particolare in quest’ultima mostra Mutazioni furtive che ne raccoglie le opere più recenti. Cominciando dal titolo, volutamente ambiguo, perché nella lingua italiana l’aggettivo furtivo, oltre a indicare qualcosa che proviene da un furto, e non è certo questo il caso, significa “cosa che si fa o avviene di nascosto, e in modo rapido, per impedire che altri se ne accorgano”. Mayer in pratica ci sta invitando a osservare molto bene i suoi lavori, tra un passaggio e l’altro la differenza è davvero minima, ma se scorriamo con lo sguardo e arriviamo al fondo la mutazione sarà stata evidente e di conseguenza anche l’effetto. Qualcosa è accaduto e non ce ne eravamo accorti.
Mayer costruisce le sue opere pittoriche con perizia artigiana, in un esercizio di concentrazione solitaria immerso nel paesaggio superlativo della Langa astigiana nel sud del Piemonte ove si ritira soprattutto nella bella stagione. A Mayer preme una sorta di autosufficienza produttiva che gli consente il tu per tu con l’opera, realizzata strato dopo strato, passaggio dopo passaggio. Affronta il legno del telaio, stende il tessuto e prepara la vernice, operazioni che l’artista definisce meramente artigianali, “quasi sensuali”. Pone il supporto in orizzontale e utilizza l’acrilico mescolato a pigmenti in polvere che lo portano a raggiungere l’effetto desiderato. In particolare, nella serie Mutazioni furtive vede l’inserimento di un unico oggetto reale in gran quantità e ripetuto, seriale, forme rotonde tutte uguali, le fiches in plastica che si usano nei casinò al posto del denaro. La scelta, indubbiamente, ha a che fare con l’azzardo, chi gioca si affida alla sorte e al destino non bastandogli il dominio della logica e della ragione. Si può vincere, si può perdere, ma se si fanno i conti alla lunga la spunta inevitabilmente il banco. E per René il banco è la realtà, la natura. Mayer ha dichiarato infatti che “i gettoni simboleggiano l’irresponsabilità della nostra civiltà. Giochiamo con la terra come se fosse un casinò, ma in questo gioco siamo perdenti”. Gli effetti della sconfitta, del disastro, noi non li percepiamo a occhio nudo perché, appunto, le mutazioni sono furtive e non siamo abituati a farci caso al momento, anzi tendiamo a minimizzare, però quando ci fermiamo per riflettere qualcosa si è già messo in moto e diventa difficile ritornare all’ordine prestabilito. Al casinò direbbero “les jeux sont faites”.
In apparenza quella di Mayer è soltanto pittura astratta, però come aveva messo in evidenza Karmel nel saggio summenzionato, il contemporaneo ha bisogno di intervenire in un dibattito più ampio, al pari di altre forme d’arte più esplicite come la figurazione, l’installazione o la fotografia. Soprattutto, mette al centro della propria riflessione il tema ambiente, paragonando le impercettibili Mutazioni furtive a quei piccoli comportamenti quotidiani cui non prestiamo particolare attenzione e invece, a metterli in fila ordinati come fiches, risultano la concausa di numerosi ed evitabili disastri. Ci chiama dunque all’autoresponsabilità. Non ha bisogno di dichiarazioni roboanti, di proclami, Mayer ci presenta un universo luminoso, colorato, piacevole, i suoi lavori appagano chi è alla ricerca di buona pittura. Potrebbe bastare e invece no, sotto sotto (neanche troppo sotto) ci invita a vigilare utilizzando condotte etiche. Questo è l’impegno della sua pittura, la riflessione di un artista esperto e maturo che si rifà, ancora una volta, alla questione del sublime in natura, l’idea di bellezza che nasconde sempre un’insidia, anche se questa volta per accorgercene dobbiamo porre parecchia attenzione. Non c’è bisogno di una tempesta o di un maremoto, bastano piccoli e colorati gettoni da gioco messi in fila per farci venire il dubbio che si può essere meglio di così.