Riflessi d’Italia

Informazioni Evento

Luogo
CUBO IN PORTA EUROPA
Piazza Sergio Vieira de Mello, 3 e 5 40128 , Bologna , Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al
Vernissage
07/05/2013

ore 17,30

Contatti
Email: info@cubounipol.it
Biglietti

ingresso libero

Curatori
Chiara Argenteri, Angela Memola
Generi
arte contemporanea, collettiva

CUBO è un’intera opera d’arte che fonde tecnologie digitali con differenti mezzi di espressione artistica, un illuminato linguaggio comunicativo per il Gruppo Unipol.

Comunicato stampa

Riflessi d’Italia
di Chiara Argenteri

Diversi nelle somiglianze. Il pensiero occidentale (zona grigia della filosofia), del quale Hegel costituisce certamente un apice, sogna da sempre una “sintesi universale”, capace di comprendere ogni esperienza, dove una coscienza abbraccia il mondo, non tralascia nulla e diviene pensiero assoluto. L’aspirazione alla totalità è come una malattia. Secondo il sociologo Edgar Morin, noi viviamo “nell’era planetaria simbolizzata dall’immagine satellitare del pianeta” e, negli ultimi decenni, siamo passati da una percezione locale a una concezione globale che ci ha condotto a riconoscere l’importanza delle culture che hanno diversificato l’unità dell’uomo. In parole povere, saremmo in una cultura cosmopolita dell’era planetaria e, concedendoci a una percezione “aperta”, scopriamo una diversità culturale mai sperimentata, i cui contenuti possono, almeno in parte, passare da una cultura all’altra. D’altronde, se parlassimo la stessa lingua e condividessimo la stessa cultura non avremmo niente da scambiare. È lo scambio stesso a postulare la singolarità preservata. Ne parlano sociologi, filosofi, antropologi; ne discutono dalla notte dei tempi: le teorie sono molteplici e le strade rimangono aperte.
Riflessi d’Italia prende le mosse da questa idea di cultura, intesa in senso antropologico come insieme degli usi e costumi di un popolo (gli stessi che in era di globalizzazione tendono a preservarsi o quantomeno a sopravvivere meticciati con quanto arriva dall’esterno, dall’alterità), e restringe il campo al nostro Bel Paese. Si addentra, ripercorre, si getta a capofitto (e senza paracadute di emergenza) nel costume e nel comportamento sociale dell’Italia, per vedere come e dove i riti siano mutati nel corso di questi ultimi decenni , per influenza della globalizzazione, dell’incontro/scontro con altre culture o per la tendenza diffusa all’individualità (che vince di gran lunga sul rituale collettivo), figlia dei new media e della comunicazione virtuale: dal Noi all’Io. Dall’interazione con gli altri all’interazione con lo schermo piatto di un computer. Assomiglia a un gioco degli specchi: il gioco è una cosa seria ma festosa; gli specchi rappresentano invece due dimensioni: l’alterità (io mi riconosco in quanto mi rispecchio nell’altro, vedendo le differenze e le somiglianze) e la storia. Gli italiani devono conservare la memoria della propria storia se vogliono sapere chi sono: immaginarsi una comunità che sperimenta il proprio futuro, che ricorda il proprio passato e prova a inventarsi un nuovo tipo di società in cui nulla è come prima. Il pensiero si sofferma quindi sui cambiamenti che hanno investito (e investono) la nostra Penisola, sulle piccole e grandi differenze che l’hanno resa tale, e il punto di vista è quello dell’italiano, soggetto protagonista, autore e fruitore di questi riti sociali, che hanno il sapore del gioco.
Il gioco, inteso allora come attività ludica (necessaria e sufficiente) per il benessere
psicofisico dell’individuo, diventa così il terreno di confronto dei dieci artisti protagonisti della mostra. Pittura, fotografia, installazione, gli artisti scelti, ciascuno con poetiche e tecniche differenti, toccano tasti che riattivano la nostra memoria: ci proiettano in un tempo che sembra lontano cent’anni, quando si giocava al calcio balilla e la domenica a pranzo si stava con la famiglia, che era numerosa; per poi riportarci di nuovo coi piedi per terra, anzi, con la testa dentro a un computer, a tu per tu con una password.
Un’Italia che nonostante tutto non ha mai perso la voglia di giocare, di considerare l’aspetto ludico dell’esistenza: la cultura e i rituali sociali sono sempre passati attraverso il gioco, e Francesco De Molfetta lo sa bene. Caustico, cinico, ironico, dissacratorio, attratto dal paradosso e dall’assurdità, lui si fa beffa dell’arte; vive in un mondo fuori scala, fatto di giochi, sproporzioni, situazioni assurde e paradossali. Realtà e finzione si (con)fondono senza soluzione di continuità per generare opere (il più delle volte lillipuziane) dal sapore marcatamente neopop. Le sue sculture assomigliano a ready made recuperati nel patrimonio dell’immaginario collettivo: inquietanti e graffianti icone del contemporaneo, oggetti –stereotipi del consumismo più spietato, oggetti comuni defunzionalizzati, obsoleti, anche rotti che il giovane artista milanese cerca, recupera, isola dal loro contesto e sottopone a mutamento.
Adatta, sfrangia, assembla, riduce ai minimi termini. Crea un cortocircuito visivo e spiazzante, propone la realtà sotto altri punti di vista, inserendo una distorsione, un paradosso in un sistema che tutti conoscono. Come ne La dolce vita, dove un improbabile orsacchiotto è alla guida di un motoscafo Riva; dietro, a prendere il sole, tre biondissime Barbie, nude, come mamma Mattel le ha fatte, intercambiabili tra loro.
Il gioco non è solo un modo di porsi, di vedere e affrontare la vita svelando lo spirito
dispettoso, ingenuo, stupito e impotente che molte volte muove la creatività. Il gioco è anche quello dipinto nelle tele di Emanuele Giuffrida, quello degli anni Ottanta, quando i giovani andavano nelle sale giochi e si confrontavano con un flipper, una partita a biliardo o un videogioco arcade (letteralmente “videogioco da portico”). L’artista siciliano ritrae la scena con una pittura tirata, che accarezza la superficie e l’accompagna nel suo ruolo narrativo, fingendo di non aggiungervi nulla; tende il colore e lo trasforma spesso in velatura, in un semplice suggerimento, in ombra o luce. La descrizione dei volumi, dei valori storici, delle memorie dei luoghi è così affidata alla rarefazione del segno piuttosto che alla sovrapposizione di materia, al bagliore dei vuoti e delle fughe prospettiche invece che all’ingombrante presenza di elementi dipinti (comunque presenti sulla scena). L’impalpabilità del tocco prevale sulla consistenza presunta dell’oggetto, la leggerezza vince sulla solidità.
Tutto sembra galleggiare in aria. Non si sa cosa stia accadendo intorno, ma quanto visto
basta a fomentare una storia, a stimolare l’immaginazione di un avvenimento. Nel silenzio
assoluto di spazi che non hanno ancora rinunciato a raccontare, Giuffrida dipinge quello che manca: il popolo che abita questi spazi, quello insomma che porta vita ed energia. Riporta sulla tela una sensazione, testimonia la differenza tra realtà e necessità. Non vediamo lo spazio adesso, ma leggiamo la storia che ha preceduto questo momento e quella che seguirà.
Nelle sale giochi e nei bar c’erano i videogiochi arcade e i tavoli da biliardo, all’oratorio invece si giocava al calcio balilla, e i tornei erano una cosa davvero seria. Andy ne dà
un’interpretazione tutta sua, con un’installazione dal sapore fortemente neopop (con un
occhio a Warhol e l’altro a Haring). Come il campionamento in un suono è una frazione di
realtà manipolata e messa in sequenza, così nelle sue opere, Andy (che è poi anche un
musicista) fotografa un istante, un flashback e lo ridispone in un’ottica surreale. Emozioni,
esperienze e colori vivono in una dimensione al tempo stesso lucida e caotica, dove
personaggi apparentemente scollegati fra loro diventano simboli di concetti da esporre: un
collage neopop, un enorme patchwork in salsa acida, una poetica fatta di frammenti, di storie cominciate e mai finite, di flash che arrivano in presa diretta dagli anni Ottanta e dal vissuto dell’artista brianteo. I colori sono sempre quelli acidi, fluorescenti, da pugno in un occhio, le campiture sono attente e precise, con un segno netto, marcato, gelido, riflessivo, che non lascia margine alla sbavatura. Coloratissima, citazionista e paradossale, la ricerca di Andy è solo falsamente infantile, falsamente glamour, falsamente divertita. È un enorme rebus, una costruzione difficilissima da decifrare. È come una bellissima donna che indossa un vestito appariscente e che, sotto il vestito, nasconde molto, molto di più. Spiazzante e originale, la sua arte è un gioco sottilissimo di rimandi, sovrapposizioni, tradimenti tra ciò che appare in tutta evidenza e ciò che rimane dietro alle quinte.
Gioco è svago, è libertà, è rompere le regole e deviare dalla quotidianità, come una gita fuori porta, magari al mare, magari in collina per un pranzo in famiglia. Si inforcava la Vespa, si pigiava sull’acceleratore e ci si godeva il vento tra i capelli.
Francesca Catastini con le sue fotografie costruisce delle vere e proprie messe in scena
(ispirandosi ad artiste come Sandy Skoglund e Cindy Sherman), e si cala lei stessa al centro dell’inquadratura, nei panni di Francesca Catastini. La scenografia è la casa di campagna dove l’artista-bambina trascorre le vacanze estive, e gli attori co-protagonisti sono i suoi famigliari, che si mettono in gioco senza maschere e falsi pudori. Ciò che rappresenta le opere è la presenza costante di tutti i soggetti. A dispetto dei legami naturali, infatti, questa presenza continua appare come una forzatura e sottolinea quanto possa essere fuorviante l’immaginario classico correlato al concetto di famiglia. La presenza della macchina fotografica, inoltre, influenza inevitabilmente pose ed espressioni dei protagonisti e funziona da catalizzatore, in quanto è in grado di registrare e amplificare eventuali ansie e tensioni,spesso celate dietro un apparente equilibrio.
A pranzo in campagna dai genitori le pin up di Marco Lodola ci andavano col fidanzato, si
sedevano dietro di lui sulla Vespa e lo stringevano forte. Disegnate o scolpite che siano, le
figure di Lodola sono ridotte a sagome, a contorni di plexiglas: non risultano descritte nei
particolari o costruite a tutto tondo. Al contrario, l'incompiutezza dei lineamenti e la
trasparenza del corpo dà loro il prestigio e la seduzione della leggenda. I soggetti dell’artista pavese sono fatti di luce e aria, non cadono mai nello scontato, nel particolare, non hanno pennellate a ereditare e sostituire la rigidità delle ossa e degli apparati interni. Vuote, plasmabili, fuggenti, sono architetture futuristiche, lampi di luce colorata – leggerissimi, fluidi, indipendenti – che suggeriscono e inscenano una presenza, un ricordo, un desiderio.
Fluttuano e danzano sospesi come se fossero angeli, una sorta di materia immateriale. Non hanno organi interni e quindi nemmeno punti deboli, volano, potrebbero trasformarsi,
spariscono e rinascono.
La Vespa conquista anche Gianni Cella, che ripropone nelle sue sculture realizzate in
vetroresina smaltata. Solo che sulla sua Vespa montano strani omini dalla testa a forma di
cactus, fanciulle con la pelle color dell’ebano, alieni e transgender. Cella si ispira a
personaggi che arrivano direttamente dal grande schermo, da film di fantascienza come Man in black e X-man e dai cartoni animati come Futurama (opera di quel matto di Matt Groening), e costruisce i suoi mondi, fatti di giochi e personaggi surreali. Ci sono le facce ambigue con due nasi e due bocche, ci sono i ciclopi, i pinocchi alieni con tre occhi e i candelabri mannari, e poi gli universi maschili e femminili e tanti esseri di sesso indefinito (come le drag quee e gli ermafroditi). L’artista affronta il tema dell’universo sotto ogni possibile aspetto e si cimenta con le razze, i generi e i sessi; il tutto condito da una buona dose di sarcasmo e un pizzico di cinismo, che ricorda la comicità sferzante e demenziale alla Monthy Pyton, fatta di sproloqui surreali e sovversivi alla Groucho marx. Le opere di Cella spiazzano l’osservatore, perché propongono la realtà sotto altri punti di vista, vicini al paradosso e all’assurdo, pur mantenendo un linguaggio e codici comuni, comprensibili a tutti.
Lo svago e il piacere di stare all’aria aperta si contrappongono nettamente al gioco come
intrattenimento, passivo e automatico, che è tipico della televisione. Il tubo catodico che
trasmette il segnale di fine delle trasmissioni diventa anche l’inizio del processo di
cambiamento che investe i rituali collettivi.
Stefano Bolcato entra in scena a processo già compiuto: il tubo catodico è stato sostituito
dalla tv al plasma, i canali analogici dal digitale e dalle parabole “Scai”. E gli esseri umani
sono diventati dei modellini della Lego. Il mondo fatto di plastica dell’artista romano non è
lontano da noi, al contrario, le faccine dipinte sulla tela sono molto familiari. Bolcato le mette in posa, le fotografa e solo successivamente le fa rivivere sulla superficie bidimensionale, con olio e acrilico. È una pittura fredda, anti-fisiognomica e anti-emozionale, dove le uniche vere caratterizzazioni sono concesse ai luoghi, e a far capire come sia una persona non è il suo volto, ma il contesto e gli accessori che le fanno da corredo: certezze che possono essere smontate, proprio come una costruzione di mattoncini Lego, con grande facilità. Ciò che lo attrae è la possibilità di giocare nella rappresentazione. Attraverso la creazione di contrapposizioni tra micro e macro, gioco è bestialità, vivacità dei colori e dramma del messaggio, tenta di produrre uno stimolo, una riflessione, a volte cercando di farlo per mezzo dell’ironia. Bolcato suggerisce come una premonizione, il destino di omologazione asettica a cui l'uomo sembra destinato.
Tocca a Rachel Morellet prendere per mano il rituale collettivo, già intaccato dal tubo
catodico, ed esasperarne l’individualità e la solitudine di fondo, rappresentata dal web. Con l’avvento della realtà virtuale, rimaniamo imprigionati come mosche nella rete del ragno, a tu per tu con la nostra password, nuova identità asettica che ci consente di accedere ai neonati rituali virtuali di internet. Dalle installazioni alle tele ad acrilico, dalle foto ai video, fino alle performance, la Morellet, eclettica e virtuosa sperimentatrice di tecniche e materiali, gioca coi contrasti dialettici, con gli opposti, e le sue opere contengono tanto la forza di una domanda quanto quella di un’affermazione. L’artista francese (di adozione toscana), figlia e nipote d’arte, usa i simboli più comuni e familiari per destabilizzare, per creare (usando una sottile ironia) un corto circuito che obbliga lo spettatore a riflettere e mettere in discussione certezze e credenze.
A chiudere le danze, simbolo di un’Italia che pur nel cambiamento mantiene o cerca di
mantenere il più possibile inalterata la sua cultura, è [email protected], che mostra il
grande poeta italiano mentre, pensieroso, ticchetta sui tasti del suo Mac, nel probabile intento di salvare un nuovo capitolo della sua Commedia. La tela è dipinta da Giuseppe Veneziano, l’artista siciliano che ha impiccato Maurizio Cattelan, decapitato Oriana Fallaci e attentato alla vita di papa Benedetto XVI, in una serie di ritratti d’attualità piuttosto provocatori. Erotismo, sesso e seduzione sono spesso utilizzati nel suo linguaggio come sinonimo di corruzione e degrado ideologico (della politica, dell’infanzia, dei sogni). La politica, il sesso e la religione sono tre parametri che lo aiutano a valutare il clima culturale di ogni epoca e che Veneziano fa abilmente interagire, per raccontare il clima di caos che stiamo vivendo, tra crisi ideologiche e religiose, e il sesso che domina ogni settore della società. L’arte necessita, per la sua sopravvivenza, di immagini che riescano a comunicare più verità possibili.