Rita Mandolini – Disturbo di conversione
Sebbene il titolo della mostra sia in parte ironico e dal duplice significato, sono effettivamente invisibili al mondo le protagoniste dei dipinti di Rita Mandolini, invischiate in una materia densa, quella del nero
Comunicato stampa
Meccanismo psichico e psicosomatico, causato da fattori mentali quali lo stress e il conflitto, il disturbo di conversione dà luogo a fenomeni che esprimono chiaramente ciò che fino a quel momento è stato celato, invisibile ad occhi esterni. Sebbene il titolo della mostra sia in parte ironico e dal duplice significato, sono effettivamente invisibili al mondo le protagoniste dei dipinti di Rita Mandolini, invischiate in una materia densa, quella del nero: il non-colore per antonomasia, con la sua qualità assorbente, che esalta per contrasto la luminosità e che è divenuto, nella storia della pittura, un elemento determinante per la composizione e la spazialità. La scala dei toni di nero, con ripetute pennellate, conferisce lo spessore materico e la profondità dei riverberi, fra tratti lucidi e opachi. Il non-colore costruisce la forma, che appare sfuggente e gradualmente si trasfigura, dando corpo a un’immagine persistente e penetrante. Le immagini di suore, una quadreria di suore, in cui ogni dipinto è un ritratto. L’osservatore dev’essere avvezzo all’attesa, occorre qualche istante prima che lo sguardo si abitui alla reale percezione della superficie nera.
É l’oscurità, la condizione prediletta dall’artista. Il buio e i piccoli anditi: spazi intimi e nascosti, come i luoghi in cui ci si rifugia nell’infanzia. Ci troviamo in una dimensione privata e raccolta, ove si affacciano memorie sepolte, fra giochi e paure, evocate nella fotografia che ricorda il muretto della scuola sormontato da vetri taglienti. «I legami visivi ed emotivi che instauro con un luogo o una storia sono per me fondamentali nel dare forma a un’idea», scrive l’artista. In questo caso, l’esecuzione dei ritratti di suore si è dispiegata dal 2009 al 2019, un lasso di tempo in cui si colloca la visita al convento di Santa Rita, dove – nel racconto di Mandolini durante una conversazione – una suora le ha mostrato la “reliquia” di Yves Klein, devoto alla Santa, un prezioso scrigno contenente colori e oro dell’artista francese. Lo scrigno sembrava ambiguamente, ironicamente (e forse drammaticamente) simile a una trousse per il trucco femminile. Senza eufemismi né indulgenza, e in contrasto con l’apparente tranquillità emanata dai ritratti, lo sguardo si rivolge alle contraddizioni interiori sorte da proibizioni, inibizioni, conflitti, negazione della femminilità, segreti inconfessabili. Fronteggiano la quadreria due tradizionali simboli di femminilità: in Orpello (2017) appare un pettine, rappresentato a guisa di quelli dipinti da Diego Velàzquez, maestro nell’uso del nero; mentre un ventaglio, talismano di femminilità celata con frivolezza, è “decorato” con l’ecografia uterina dell’artista, mettendo in mostra un altro andito segreto, visibile nel suo aspetto fisico e crudo, spazio interno fra le interiora scelto come autoritratto. Il ventaglio conserva la forma originale, ma l’immagine è in attrito con la funzione dell’oggetto, che risulta quindi alterata così come avviene con la liquirizia, una massa strisciante di materia che invade il pavimento pur continuando a diffondere il caratteristico profumo che la rende così invitante.
Identità e interiorità si trovano in opposizione, o comunque in bilico sul filo di un labile confine, tra lo sguardo distaccato e la compassione (nel significato latino del sentimento di vicinanza). Ma si tratta anche del confine tra la forma (se così possiamo chiamare la cangiante epifania dei dipinti) e l’informe (il ventre sul ventaglio e la matassa dei cavi di liquirizia). «Mi diverte molto modellare, ma anche disfare», afferma l’artista. La forma vive dunque in uno stato sempre mutevole, in virtù della luce o della malleabilità della materia, anche grazie allo sguardo altrui.
Diletta Borromeo
Rita Mandolini.
Sono nata a Roma, dove vivo, lavoro e mi sono diplomata in pittura all’Accademia di Belle Arti. I legami visivi ed emotivi che instauro con un luogo o una storia sono per me fondamentali nel dare forma a un’idea. Ognuna richiede di essere espressa con un medium specifico.
Ho iniziato con la pittura, che utilizzo prevalentemente e accoglie ogni altro linguaggio o tecnica che possa mettere in discussione l’ovvietà dei rapporti tra apparenza, tratto, materia, visibilità. Cerco di mettere in atto una trasformazione poetica del luogo o del soggetto. Ho sperimentato la natura del limite lavorando su spazi circoscritti come l’interno del corpo e l’ambiente domestico, usati come palcoscenico del proprio dramma.
Sono attratta dalle potenzialità del nero, sempre diverso da sé, mutevole e cangiante. L’assenza di luce e colori mi ha sempre affascinato, fin dall’età in cui l’oscurità era un posto in cui rifugiarsi, capace di contenere segreti, idee e forme.
Lentezza e attesa mi appartengono. Ambienti domestici, memorie sepolte, spazi ristretti, intimi e nascosti nella semioscurità, sono i miei campi d’azione preferiti. Quando non c’è luce a sufficienza, si è costretti ad affinare i propri sensi, ad essere pazienti, in attesa che il nostro sguardo, prima disorientato, abiti con disinvoltura il nuovo spazio. E’ in quelle zone d’ombra, in cui lo sguardo è solo una parte del tutto, che io mi ritrovo.
Progetti recenti:
• “La linea d’ombra”, di Pasquale Polidori, a cura di Diletta Borromeo, Macro Asilo, Roma, 2019.
• “Fuori 8”, collettiva a cura di Carlo Gallerati e Noemi Pittaluga, Galleria Gallerati, Roma, 2019.
• “Spazio buio”, Ogni spazio buio è la camera oscura dell’infanzia, l’immagine l’oggetto fatale, progetto per la Black room del Macro, Roma, 2018.
• “Non ti faccio uscire non ti lascio entrare”, personale a cura di Noemi Pittaluga, Galleria Gallerati, Roma, 2018.
• “Contestare l’ovvio”, collettiva a cura di Helia Hamedani, Mlac La Sapienza Università, Roma, 2017.
• “Il sé allo specchio / autoritratti fotografici”, collettiva a cura di Giorgio Bonomi, Ass. Cult. Artefuoricentro, Roma, 2017.
• “Pezzi Unici III”, collettiva a cura di Noemi Pittaluga, Galleria Gallerati, Roma, 2016.
• “Muse ispiratrici per artiste ispirate”, collettiva a cura di Manuela De Leonardis, progetto per la stanza di
Jackeline Kennedy, Albergo Capitol, Crotone, 2015/2016.
• “Naked Lights”, progetto a cura da P.L.M. Piacentini e Ludovica Palmieri, Teatro Tor di Nona, Roma,
2015. “Radice”, azione; “Non puoi avere l’ultima parola”, installazione.
• “Dialoghi spuri in quattro atti”, Atto II, un progetto di Chiara Giorgetti, Sartoria Teatrale di Massimo
Poli, Firenze, 2015. “Dal soffitto non cadono fiori, l’acqua non sempre riflette”, installazione e video.
• Nero Roma, personale a cura di Roy Alexander Leblanc, Roy Alexander Art Gallery, Los Angeles, 2015.