Roberto Chiabrera – 12 ore
In esposizione il progetto pittorico 12 Ore, nato da un’esperienza drammatica, da un’agonia e una morte. Un progetto in cui la pittura diventa protesta contro il dolore e mezzo per rielaborarlo.
Comunicato stampa
Inaugura sabato 18 ottobre 2014 alle ore 17.00, presso il nuovo spazio Galleria Ricci di Marialuce Ricci in Piazza Alberica a Carrara, la mostra di Roberto Chiabrera 12 ore, affidata alle cure di Enrico Mattei.
In esposizione il progetto pittorico 12 Ore, nato da un’esperienza drammatica, da un’agonia e una morte. Un progetto in cui la pittura diventa protesta contro il dolore e mezzo per rielaborarlo.
Accompagna la mostra il testo-intervista di Enrico Mattei a Roberto Chiabrera
Roberto Chiabrera è nato a Genova, dove vive e lavora, nel 1970
MOSTRE PRINCIPALI
2013
Lo spazio condiviso, Blu Corner – Carrara
2012
Prosopagnosia (selected beer), Vehicle Projects – Pietrasanta
Ginecomastia, Galleria Nicola Ricci – Carrara
2009
Interferenze Contemporanee, La Versiliana – Marina di Pietrasanta
2008
Only Locals, Scuderie Palazzo Mediceo – Seravezza
Intervista Mattei- Chiabrera
“Roberto, conoscendoti da tanto tempo e avendo visto tutte le evoluzioni del tuo lavoro fino ad oggi, vorrei sapere come descriveresti il tuo rapporto con la pittura in questo periodo ?
Riguardo la mia pittura non ho mai il controllo completo delle azioni, naturalmente questo succede anche nella vita di tutti i giorni ma proprio questo potrebbe essere il fattore preponderante che porta vantaggio a quello che faccio: ciò che riporto sulla tela è una conseguenza diretta di precisi momenti passati, immagini congelate nella mente che vengono trasformate in modo istintivo. Succede che proprio l’attimo di modificare immagini impresse nella memoria e riportarle in essere attraverso la pittura, senza che siano minimamente riconducibili ad un principio, diventi il passaggio più difficile del mio iter.
Osservando le tue opere si percepisce una sorta di dialogo e di scontro tra la linea curva e la linea retta, forme aperte e forme chiuse. Pensi che questo modo di dipingere prenda spunto dalla storia dell'arte oppure, nel suo insieme, esiste una novità ?
Durante il processo di realizzazione mi trovo a dover scegliere fra due modi di operare: fin dall'inizio il mio pensiero scaturisce e trasforma due tipologie di forma, forme morbide e forme angolari o spigoli. Le rotondità potrebbero essere riconducibili all'umano, di contro la geometria ad una sorta di ambiente non ben specificato, nulla è definito tutto resta in sospensione e la rappresentazione si allontana dalla figura in una sorta di sintesi .
Forse dovrei da subito parlare di astrattismo ma è un termine da me poco apprezzato, ad ogni modo, viene da subito a crearsi una confusione, cosicché le due "forme" diventano reversibili e fin dall'inizio si confondono in una sorta di fallimento, ossia succede che non necessariamente le geometrie implichino un richiamo all'architettura o alle macchine o a ciò che è stato cogitato e costruito, etc. e viceversa le rotondità riguardano la figura umana, la carne. Il tutto viene a mescolarsi da subito pur continuando ad essere sia una che l'altra cosa, un paradosso, ciò che accade è una sorta di trasformazione continua, da qui il mio operato che fuoriesce da esperienze e conseguenti sensazioni plasmate in "figure non figure" .
Quindi dici che le tue creazioni nascono da un fallimento della forma perché le linee sono continuamente in contrasto loro, ma come nasce allora l'idea progettuale nelle tue opere?
L’obiettivo principale resta quello di mantenere una linea rigida che mi permette, e a volte obbliga, ad allontanarmi il più possibile dal reale attraverso una sorta di trasfigurazione del non finito. Forse per questo i dipinti sono eseguiti in modo veloce con una quasi isteria di fondo, proprio per non perdere l'idea base. La testa è come un colon che produce ciò che si ingerisce e rielabora periodi dolorosi, momenti riguardanti sofferenza senza per questo essere impressi chiaramente ed avere un qualche collegamento visivamente palesato su una superficie.
Quando è iniziato il cambiamento, o meglio, quando hai iniziato a dipingere questo tuo stato d'animo?
La serie di quadri è iniziata in modo piuttosto naturale circa tre, quattro anni fa ma, pur avendo stravolto la mia pittura, penso di aver poi proseguito con la rielaborazione del dolore fisico, della sofferenza e della fine, da sempre soggetti-oggetti della mia ispirazione.
Perché ti stai concentrando unicamente sulla pittura? Ricordo benissimo le tue installazioni, in prevalenza formate da dipinti ma anche da altre tecniche e materiali, mi chiedo se tornerai in futuro a realizzarne ancora.
Quando frequentavo la facoltà di architettura tutto per me era improntato sulle tavole preliminari, sugli schizzi, sulle idee di fondo. Mi riusciva difficile portare a termine un lavoro nel senso di misure, calcoli matematici, statici etc., anche se erano sicuramente essenziali per poter raggiungere il fine. Non avevo intenzione di finire ed arrivare ad una conclusione che a me si presentava come la morte del progetto stesso.
La pittura è sicuramente ciò che predomina, i lavori di adesso fanno parte di un indefinito in continua fase di progettazione, mi piace il fatto di non essere mai diretto e di risultare alle volte contorto. Il mio modo di fare è un continuo sviare: esiste in effetti una direzione che cerco di impormi ma cambia sempre e non posso fare altro, non ne posso fare a meno. Tante volte sono attirato dal fatto di essere poco credibile ma anche questa è una delle caratteristiche del mio essere che trascino volentieri nel lavoro ed è ciò che mi permette di portare avanti un tipo di visione. Tutto è fuori controllo, mi piace la confusione e sostare in un continuo stato di distrazione.
Percepisco la pittura come un qualcosa di mobile e maggiormente rischioso e problematico rispetto all’installazione, forse in questo periodo ho bisogno di fermarmi un attimo prima. Sì, è vero, sto dedicando la maggior parte del mio tempo a dipingere, non escludo il fatto che alla mostra possa esserci qualcosa di diverso dai soli quadri ma se dovesse essere sarà molto lieve e leggero uno specchio delle tele che sto facendo. La linea resta la stessa, penso che la pittura mi stia assorbendo in modo maggiore pur restando inerente all’installazione che continua a sussistere.
Quello che spero è che lo spettatore possa vedere nelle mie tele delle strutture realizzabili a 360 gradi: sto cercando di sviluppare un mio personale minimalismo, alle volte penso che con l’installazione si raggiunga un fine simbolico che ora non mi si addice, come quando si è finito di costruire e non esiste più possibilità di conversione. Provo a pensare ad una architettura che una volta fatta molto spesso non ti permette più di agire per essere modificata.
Ricordi quando realizzavo quelle storie senza fine con i fumetti e mi ero fissato soprattutto sulla tecnica? Facevo e ripetevo, alla ricerca di una personale perfezione. È stato un periodo piuttosto lungo che mi ha portato a pensare che in realtà non contavano i dipinti ma i discorsi che aggiungevo. Non vedevo l'ora di liberarmi. Ripensandoci avrei dovuto dipingere solo i dialoghi, tutto il resto era un di più, ma allora pensavo ad un pubblico, mentre ora penso più a me indubbiamente. Non è mai facile fermarsi prima, però ora mi riesce naturale. Esiste un lasso di tempo che serve a realizzare un lavoro, che va dalla concezione di idee allo sviluppo finale. Ecco, per me ora quel tempo deve essere il più breve possibile.
Cosa cerchi negli occhi delle persone che osservano e si fermano a contemplare le tue pitture? Esiste dapprima una volontà da parte tua nei loro confronti oppure no?
Mi piace particolarmente il fatto di poter lasciare lo spettatore in un limbo d’incomprensione di fronte ad una sorta di rappresentazione del "nulla" e ad una pittura che definisco fallimentare, disastrata ma soprattutto d’impossibile lettura.
Preferisco l'idea di mantenere nascosti i fattori scatenanti inerenti alla mia elaborazione lavorativa, ma alle volte bisogna spiegarsi e quindi mi limiterò a dire di aver concepito il mio fare, che ormai porto avanti da tempo, durante una fase di accadimenti reali e personali che hanno coinvolto me, in quanto spettatore direttamente interessato ma anche “vittima” di un dolore minore, e altre persone, subissate e logore, vittime di un dolore maggiore. Proprio il livello di frustrazione che ne consegue mi ha coinvolto e permesso di realizzare una pittura che nasce da questi avvenimenti, ma che allo stesso tempo si allontana di prepotenza nello svolgimento di una rappresentazione che si dipana in un preciso operato. Mai ne vuole svelare il principio. Mi viene da pensare che le dinamiche che realizzo sembrino così “pulite” in contrapposizione alle difficoltà e complessità che avverto nel vivere e nell’affrontare l’esistenza. Forse quello che cerco attraverso i miei lavori è un annientamento della figura e del rapporto con questo mondo.
Va bene Roberto, penso di aver compreso ma vorrei farti ancora un'ultima domanda: perché 12 ORE?
12 ORE è un progetto che ha avuto inizio con la fine di un'altra cosa, in questo caso un essere umano, come accade da sempre. Ora mi viene in mente che la mia pittura potrebbe essere descritta come una protesta nei confronti della sofferenza o anche una continua ricerca di un particolare antidoto…
12 ORE sono le dodici ore di agonia che portano alla fine del corpo e della vita su questo pianeta , ho cercato di impormi una “terapia tecnica” che mi fosse anche da aiuto ad elaborare le situazioni che si sono venute a creare fino agli ultimi attimi.”