Roberto Pietrosanti – Spinarium
La mostra di Roberto Pietrosanti si compone di 14 lastre in ottone patinato e da un polittico di 9 opere su carta posti in dialogo con alcuni versi del poeta Massimo Morasso.
Comunicato stampa
La mostra di Roberto Pietrosanti, che mercoledì 7 marzo si inaugura a La Nuova Pesa, si compone di 14 lastre in ottone patinato e da un polittico di 9 opere su carta posti in dialogo con alcuni versi del poeta Massimo Morasso. Nell’articolato itinerario creativo dell’artista, il percorso messo in mostra dà conto degli ultimi sviluppi di una riflessione iniziata già nel 1996, che ha al centro il tema della corona di spine. La serie delle lastre e l’ampio polittico che le accompagna, hanno natura materica, segnica e formale ben distinta; eppure si rispecchiano l’uno nell’altro come i due poli necessari di un’unica, salda dialettica simbolica.
Scrive il curatore Massimo Morasso nel testo che introduce la sequela: «L’ingegno di Pietrosanti, nutrito di amore per la materia, è un ingegno critico. In quest’ultimo Pietrosanti, uno dei luoghi dell’immaginario che più ha servito l’iconografia dell’arte cristiana diventa oggetto di uno scavo per vie d’essenza. Questo scavo non produce arte concettuale; lo sguardo del critico del visibile, che incontra e re-inventa cose e spazi alla luce radiante della propria visione interiore, è lo sguardo del pellegrino. È lo sguardo rivolto verso le verità profonde nascoste in superficie del lettore del Libro della natura che “nel mezzo del cammin” della sua vita, attraverso l’intuizione (in senso lato) “teologica” e l’interpretazione sottile dell’icona della corona di spine del Cristo, riesce a sollevare la materia a una latitudine speculativa all’altezza della quale la visione puramente estetica trova il suo scacco. Ciò, va da sé, prima e al di là di ogni possibile attualizzazione in senso psicologistico e/o autobiografico del pre-testo evangelico, e del travaglio in limine mortis del suo protagonista. Che in Pietrosanti, che non fa mai arte religiosa, non funziona tanto come un modello di dedizione o abbandono fideistico, quanto, piuttosto, come un compagno di strada, l’ombra riflessa dell’homo viator che è in ognuno di noi, colto sul confine ideale fra l’esistenza e la domanda di senso che la abita. Qui, in qualche strano, oscuro modo la materia violentata che ci restituiscono queste lastre giustapposte in modo del tutto casuale – queste affascinanti lastre- costato lapidate, martellate e tagliate con sapienza, e con pazienza, d’artigiano – ci racconta che le spine del Cristo feriscono Cristo tanto quanto chi le osserva, perché, evidentemente, non sono orientate solo su Cristo, ma anche su di noi. Specimen scorticato ed esemplare di una forma feconda di Pathosformel post-novecentesca, la Via Crucis di Pietrosanti chiede di essere guardata in un modo partecipato e intensivo, così da spezzare il triangolo chiuso dell’immanentismo estetico: l’artista, la sua opera, gli spettatori. In chi, come Pietrosanti, ha sensi sufficientemente affilati da saperne ascoltare le risonanze intellettuali, lo spazio-tempo terrestre ha passaggi segreti, fila di continuità e moti oscillatori che connettono il prima e il dopo – l’originario e il di-là- da-venire – in una logica di relazione e interscambio genetico fra la fisicità della materia e il soffio spirituale che la anima, in forza della quale l’opera d’arte non si dà (più, come in questo caso) come il prodotto di una risoluzione estetica, ma come il segno, o, meglio, come il “resto” testimoniabile di un processo in corso. Come un resto dinamico, cioè, carico insieme di antico e di futuro. Pietrosanti vive, soffre, osserva e sente il gemito del vivo fuori e dentro di sé, e si mette a scavare. E l’arte apparentemente rozza che è il frutto del suo gesto oscillante fra contemplazione intellettuale e rifondazione plastica non sa più che farsene della “figura”, non già in ossequio a un qualsivoglia mentalismo di taglio astrattitivista, ma perché parla con naturalezza il lessico della
trasfigurazione. In questo senso, i graffi e gli arabeschi su carta che compongono lo spiazzante polittico che chiunque si occupasse di leggere nella coerenza di un ordine narrativo penserebbe valga, da solo, come la “quindicesima stazione” della sua Via, rafforzano l’impressione di trovarsi di fronte a un deliberato corto circuito visivo, agito da un artista che è capace, ormai, di dar corpo visibile a delle opere-non-opere scarnificate da qualsiasi possibile fascinazione retinica. La specificità dell’arte di Pietrosanti è di essere fatta di materia trasfigurata, una materia-valvola che vale come grimaldello ispirativo per delle immagini di pensiero poste fra il labile dolente umano e l’apparentemente impassibile quasi-eterno naturale. Perché è la materia, per chi patisca la vita nel suo intreccio celeste e sotterraneo di radici, che irrompe sull’asse inclinato della realtà come una sorta di energizzatore rivelante di ciò che, di solito, resta coperto all’occhio dei più.»
I testi di Massimo Morasso che si susseguono a margine delle singole “stazioni” dell’itinerario doloroso tracciato da Pietrosanti, nascono dal tentativo di immaginare un’altra via crucis, fondata sulla convinzione del poeta genovese che si possa pensare al sacrificio e all’idea di resistenza al tempo attraverso gli occhi del cuore.