Sam Havadtoy – Homage. Cultural Migrations/Migrazioni Culturali
Mostra dedicata al grande tema delle contaminazioni nel mondo dell’arte.
Comunicato stampa
La terza mostra personale di Sam Havadtoy alla Fondazion
e Mudima di Milano, intitolata "HOMAGE. Cultural Migrations/Migrazioni Culturali", è dedicata al grande tema delle contaminazioni nel mondo dell'arte. L'artista ungherese offre una rilettura originale di undici artisti migranti del secolo scorso, mettendo in luce il loro impatto e la loro influenza attraverso le sue caratteristiche cortine che delimitano lo spazio della visione. Con le sue opere, Havadtoy celebra e omaggia questi artisti che con le loro personalità hanno segnato in modo determinante la storia del panorama artistico globale.
Nel mondo delle arti le migrazioni culturali sono un argomento ricorrente, e al tempo stesso sempre contemporaneo, che ha che fare con la complessità e la nascita di contaminazioni profonde e grandi cambiamenti. La Fondazione Mudima apre una riflessione su questo tema ospitando HOMAGE. Cultural Migrations / Migrazioni Culturali, terza mostra personale dell’artista di origine ungherese Sam Havadtoy allestita nello spazio milanese.
L’esposizione, dal 7 marzo al 9 aprile 2024, presenta 27 opere recenti di uno degli artisti più interessanti e originali della scena internazionale. Solo nello scorso anno gli hanno dedicato importanti rassegne ben sei musei, tra i quali il Museo nazionale ungherese.
Nato nel 1952 a Londra da una famiglia ungherese, Sam Havadtoy rientrò in Ungheria nel 1956 e non gli fu più concesso di ritornare in Inghilterra. Nel 1971 emigrò illegalmente in Inghilterra attraverso la Jugoslavia e un anno dopo si stabilì negli Stati Uniti.
Una biografia frastagliata, dunque, contribuisce allo sguardo che Havadtoy dedica al tema delle migrazioni e che questa sua mostra personale approfondisce attraverso la selezione di un gruppo di undici artisti del secolo scorso, tutti migranti, tutti diventati assai famosi: Mark Rothko, Andy Warhol, Alexej von Jawlensky, Max Ernst, Victor Vasarely, Piet Mondrian, Marc Chagall, László Moholy-Nagy, Max Beckmann, Pablo Picasso, Tamara de Lempicka.
Per ciascuno di questi artisti Havadtoy sceglie un loro quadro e ne ricrea due copie fedeli, ma alla propria maniera, con il suo stile inconfondibile: infiniti punti che non permettono di pensare a un punto finale. Delle due opere realizzate una si può vedere interamente, mentre davanti alla seconda Havadtoy colloca una quinta scorrevole, che i visitatori possono spostare, decidere di aprire o no, vedere o non vedere. “La cosa interessante – sottolinea l’artista – è che, se tu chiudi, pensi che il problema non ci sia più, che scompaia, quindi siamo noi a voler guardare in faccia la realtà, oppure far finta che non esista o, peggio, decidere di ignorarla”.
Le opere di Havadtoy presentano un’altra cifra espressiva molto particolare che risiede nell’utilizzo, abbastanza insolito nell’arte contemporanea, del pizzo con cui alcuni popoli dell’Est coprono le salme prima di chiudere la bara, un modo gentile per affrontare un momento difficile in modo che, anche qui, si possa vedere o non vedere, intravedere. Questo elemento, nella ricerca artistica di Sam, non è solo un “layer” usato per coprire con timidezza la propria identità, o lasciarne intravvedere i contorni; ma è un elemento fondante sia dell’architettura delle opere, che è il piano manifesto, sia di quello totalmente simbolico e fortemente evocativo. Il pizzo afferisce a un lavoro manuale sottile e raffinato, femminile, che nel suo intreccio dipana storie mai dette, intense, spesso sofferte. Nella sua pratica artistica Havadtoy incolla frammenti di pizzo sulle sue tele; quindi, strato dopo strato li ricopre di colore, in modo che il gioco di vuoto e pieno che si crea, diventi l’elemento strutturale dell’immagine che ne risulta. Svelare e nascondere al contempo, Havadtoy è maestro indiscusso di simmetrie narrative come il parallelismo, il capovolgimento, l’equivoco.
Il pizzo, nell’arte di Havadtoy, è un filo dalla struttura drammatica, un grido soffocato che viene dal profondo e che esterna con discrezione, una delle caratteristiche più importanti di tutta la produzione di Havadtoy, svelandolo “solo a coloro che riescono a mettersi in sintonia con l’autore”. I suoi lavori si manifestano quindi come un processo di occultamento - che ricorda la formula di Paul Klee di “rendere visibile l’invisibile” e quello che ne consegue è una composizione stratificata, demarcata che ricorda i palinsesti, ovvero quei manoscritti di papiro o pergamena, di epoca antica o medievale, dove il testo originario veniva lavato per fare spazio a un altro scritto.
Nella mostra Migrazioni culturali ad essere delimitato è lo spazio della visione reso tale dall’utilizzo di cortine che innescano un’operazione concettuale che apparentemente evidenzia, ma in effetti cancella, perché esclude dallo sguardo l’insieme del dipinto. Le cortine-sipario, infatti lasciano l’opera non solo senza un centro e senza unicità dello sguardo, ma paradossalmente ne mostrano la mancanza attraverso una poetica del frammento che non chiede nemmeno una ricomposizione. Sono quinte che mascherano e velano, e così le immagini si tagliano, si frammentano, si mischiano, insomma sono mobili e migranti, non hanno più un valore assoluto, ma relativo. Dell’artista prescelto rimangono il ricordo depositato nella memoria dell’autore e il titolo dell’opera originaria, che è anche il titolo del lavoro realizzato da Havadtoy. Quest’ultimo, in un libro che accompagna la mostra, si fa anche voce narrante, raccontando gli undici lavori di partenza, il loro nomadismo fisico e culturale, e accennando alla biografia degli undici prescelti, ai quali affida anche un ruolo in una straordinaria – e immaginaria – squadra di calcio dell’arte del XX secolo: Chagall portiere, Rothko ala sinistra, Ernst mezzala destra…
Le opere di Sam Havadtoy non contengono solo un omaggio personale agli artisti scelti, e sicuramente da lui molto amati, ma anche una riflessione più articolata sul linguaggio pittorico, sul suo nomadismo e sulle conseguenze di una contaminazione, oggi universale, che chiama in causa tutto il nostro comune sentire sull’arte. Afferma a tale proposito Gino Di Maggio, fondatore e presidente della Fondazione Mudima: “Molti degli artisti scelti Havadtoy (tutti in realtà, tranne Warhol) fanno parte dell’epoca delle grandi narrazioni. Sono artisti delle avanguardie storiche, oppure, come Mark Rothko, facevano parte della grande epopea spiritualista, idealista, soggettivista dell’espressionismo astratto. Le cortine-sipario di Sam Havadtoy mascherano e velano questa epopea epica in cui si credeva che l’arte potesse cambiare il mondo, avesse cioè un fine utilitaristico e utopistico. Oggi che tutto questo è in grande misura tramontato, all’arte spetta forse il compito di dare senso al mondo, che è – almeno così a me appare – quello che sembra avvenire con le opere proposte dal nostro autore”.
Alla squadra eccezionale che Havadtoy ha immaginato si riferisce Gulyás Gábor, critico d’arte e già direttore del Ferenczy Museum Center: “Sam Havadtoy ha scelto undici artisti e ha reso loro omaggio creando una nuova opera d’arte che si riferisce essenzialmente alle loro performance. La formazione è composta da undici membri, e questo mi ha fatto pensare a qualcosa che forse non è venuta in mente all’artista, ma sono sicuro che condividerete con me che è come una squadra di calcio. Per me, una squadra mondiale di artisti”.
Sam Havadtoy. Nato nel 1952, all’età di vent’anni si stabilì negli Stati Uniti, dove nel 1978 fondò la Sam Havadtoy Gallery and Interior Design Studio e divenne amico intimo di Yoko Ono, John Lennon, David Bowie, Andy Warhol, Keith Haring, George Condo, Donald Baechler e numerosi altri artisti. Winged Altarpiece, la più monumentale scultura in bronzo di Keith Haring, fu realizzata in edizione limitata con l’aiuto di Havadtoy, che qualche anno dopo ne fece dono al Ludwig Museum di Budapest. Nel 1992 Havadtoy aprì la Galéria 56 a Budapest, dove espose lavori di artisti quali Keith Haring, Andy Warhol, Agnes Martin, Cindy Sherman, Kiki Smith, Robert Mapplethorpe, Ross Bleckner, Donald Sultan, Donald Baechler, oltre che del grande artista ungherese László Moholy-Nagy (www.galeria56.hu). Dal 2000 è tornato a vivere in Europa: a Budapest e Szentendre, in Ungheria, e a Milano.