Samantha Ongetta – Le strategie di decentramento
La Ongetta non mira a raggiungere un risultato di “non-finito”, ma piuttosto aspira a far fallire la comunicazione tra superficie e profondità anatomica, così da porre lo spettatore di fronte a gesti che non possono rimandare logicamente a nessuna esperienza intima, anteriore e riconoscibile.
Comunicato stampa
Per questa sua trentaquattresima proposta la Fondazione Extrafid ART, mette i propri
spazi espositivi a disposizione della scultrice Samantha Ongetta. L’allestimento
comprende una ventina di opere che i curatori Marino Gabusi e Fabrizio Ballabio
hanno selezionato con l’artista nel suo atelier.
Le strategie di decentramento (estratto)
Uno dei principi che caratterizza la scultura moderna, distinguendola radicalmente da
quella antica, è il processo di decentramento.
Questa strategia non deve essere intesa unicamente come il tentativo di ridurre
l’importanza dell’intenzionalità dell’artista, ma è da ritenersi anche come la scelta
di infrangere l’idea che l’opera d’arte possa essere compresa solo occupando una
posizione d’osservazione privilegiata (solitamente frontale).
Atti di decentramento sono riscontrabili nel percorso scultoreo di Samantha Ongetta
le cui opere possono essere assunte come paradigmi sia dello spostamento della
significazione da un io interno, stabile e concreto, a un divenire che si manifesta sulla
superficie scultorea, sia dell’interazione mobile ed eterogenea dell’osservatore con gli
oggetti.
Un primo effetto di decentramento è messo in pratica enfatizzando il processo d’intagliatura e modellatura della materia: difatti, le gradinature, le raschiature, le impronte lasciate dalle dita dell’artista, oltre a costituire la testimonianza visiva delle modalità di realizzazione delle opere, diventano segni di riconoscimento della superficie scultorea. L’opera rimane sospesa in una precaria posizione tra il suo essere materiale bruto, ovvero grezzo e non lavorato, e l’essere opera conclusa, nel
senso di contorni determinati, modellatura minuziosa e levigatura maniacale.
La Ongetta non mira a raggiungere un risultato di “non-finito”, ma piuttosto aspira
a “far fallire la comunicazione tra superficie e profondità anatomica”, così da porre
lo spettatore di fronte a “gesti che non possono rimandare logicamente a nessuna
esperienza intima, anteriore e riconoscibile”.
Il trasferimento dell’attenzione della struttura interna dell’opera alle modalità di intaglio
o modellatura di costituzione dell’oggetto scultoreo corrisponde a una mutazione
della configurazione del senso: esso non si annida più nel “sottofondo anatomico”
dell’opera, ma sull’esterno. La rottura che innesca tra gli atti o le sensazioni
rappresentate e i segni scultorei, fa sì che il senso scivoli sulla superficie del corpo,
ovvero il luogo in cui le opere della Ongetta “significano. Ne consegue che “il senso
non precede l’esperienza, ma sorge dall’esperienza stessa”. Il significato di un’opera
non è predeterminato e concepito da un soggetto, ma si realizza nel momento stesso
in cui si fa esperienza dell’oggetto. Proprio come il “corpo” teorizzato dal filosofo Jan-
Luc Nancy, il “corpo-scultoreo” della Ongetta si sottrae “alla pretesa di essere un
corpo-soggetto o un soggetto-in-corpo”, divenendo “ciò che è fuori”, in quanto fuori,
accanto, contro, presso, con un (altro) corpo, nel corpo a corpo, nella disposizione.
Non soltanto da “sé” a un “altro”, ma anzitutto come sé, da sé a sé … un corpo che
è la spartizione e la partenza da sé a sé, è il presso di sé senza il quale “sé” non
sarebbe neppure “a sé stante””.
Andrea Parravicini
Lugano, 15 settembre 2011
Fabrizio Ballabio
Presidente
Fondazione Extrafid ART