Senza Figura
Questa è la mia prima mostra che prende le ferie dal museo e presenta forme che non hanno radici nelle pinacoteche.
Comunicato stampa
Questa è la mia prima mostra che prende le ferie dal museo e presenta forme che non hanno radici nelle pinacoteche.
Così Nicola Samorì (Forlì 1977), ci introduce al percorso espositivo della sua nuova personale nella sede Monitor di Roma.
Roma (manuale della mollezza e la tecnica dell’eclisse) rivela al pubblico la presenza nelle immagini di Samorì di un codice genetico indipendente dal filone a cui è stata ricondotta più frequentemente la sua produzione da un decennio a questa parte, ossia quello che affonda le sue radici nel repertorio dei maestri del passato. Un corpus di opere inedite che possono a primo acchito creare spaesamento, ma che in realtà vedono potenziati aspetti già in nuce in altri lavori più recenti.
Manuale della mollezza
Cosa resta della mia opera quando viene strappata alla citazione, quando si deve reggere unicamente sui piedi dell’invenzione?
Senza lo scheletro del fantasma museale la forma diventa molle, e quel che viene scritto nella prima sala della galleria di Roma è proprio una sorta di manuale della mollezza. Un corpo di marmo si curva fino ad afflosciarsi su se stesso trasformandosi in un vessillo spiegato, e facendo emergere quella categoria che un artista da me ammirato − Leonardo Cremonini − considerava il male. Per il pittore bolognese tutto infatti si giocava nell’oscillazione fra il duro e il tenero, escludendo quello stato del molle, per sua natura instabile, che invece a me già da ragazzo, quando lo ascoltai in Accademia a Bologna, affascinava.
Nella stanza dedicata al “manuale della mollezza” l’artista inscena una vera e propria storia del molle tramite una serie di opere che ne interpretano il senso. Oltre venti disegni preparano al marmo La lingua, che sfida la resistenza della pietra curvandosi fino al limite estremo imposto dalla materia e rimandando nella forma alla vasta arcata che caratterizza la sala espositiva.
Questo elogio del molle si riverbera nei due altorilievi gemelli affrontati che fanno da trait d’union fra i due ambienti della mostra: come un’opposizione tra positivo e negativo, uno è realizzato in marmo bianco e uno in marmo nero del Belgio. Originati dal calco del piccolo dipinto Dolorosas, 2015 − e qui Samorì utilizza come fonte non il museo, ma il suo stesso repertorio, in una sorta di partenogenesi − fossilizzano nella pietra la mollezza delle pieghe che nella fonte pittorica sono ottenute tramite il drenaggio del pigmento a olio con il palmo della mano.
La tecnica dell’eclisse
Contraltare al breviario della mollezza è l’installazione La tecnica dell’eclisse, che campeggia su una delle pareti della seconda sala della galleria. Allestiti come in una quadreria antica si aggregano una quindicina di dipinti appartenenti alla sua produzione giovanile, che Samorì sceglie di “accecare” sottoponendoli a un processo alchemico di decolorazione e oscuramento. Ogni tela è ricoperta da una foglia di rame, poi ossidata ripetutamente con lo zolfo attraverso lavaggi successivi che consumano il metallo e portano alla luce il solo fantasma dell’immagine. Un campionario di gesti dove il corpo del pigmento ha la meglio sul fardello dell’iconografia: Quel che resta sono brandelli eclissati che scrivono una storia della mia formazione attraverso il rilievo.
Nella sottile linea di demarcazione tra pittura e scultura si inserisce una fedele traduzione in marmo nero del Belgio di una tavolozza utilizzata dall’artista per realizzare una parte delle opere in mostra, in cui la mollezza del pigmento si cristallizza nella pietra.
Dalla tavolozza di pietra alla pittura su pietra il passo è breve, come si evince dalle due nature morte dipinte su Breccia di Vendôme dal titolo Macello. I fiori sono costruiti sfruttando le macchie cromatiche della superficie minerale, che a tratti ricordano i toni della carne, nuova allusione al conflitto mai risolto con il corpo. Samorì con tratto sapiente fa emergere i fiori fatti pietra dipingendo attorno a loro il fondale su cui si stagliano, in una sorprendente tecnica “a risparmio”.
Senza Figura
Le nature morte introducono i soggetti prescelti per la mostra allestita nella sede Monitor di Pereto, Senza Figura, in cui Samorì ricopre la doppia veste di pittore e di curatore, invitando artisti a lui vicini per ricerca, dialogo e condivisione di esperienze.
Chiara Lecca (Modigliana, 1977), Enrico Minguzzi (Cotignola, 1981), Pierpaolo Campanini (Cento, 1964) e Mattia Moreni (Pavia 1920 - Brisighella 1999) prendono di petto la natura, mettendosi di fronte a essa in un confronto tutt’altro che pacificato e fluido, interessati piuttosto alla sua ambiguità, alle sue implicazioni semantiche, alle distorsioni delle forme che si compiono in bilico tra contemplazione e colluttazione. Senza Figura è anche una auto-censura, una raccolta di dipinti e sculture che escludono la presenza del corpo, la tematica più ricorrente nell’opera di Nicola Samorì.
La via dell’in-naturale è aperta in mostra, cronologicamente, da un dipinto di Mattia Moreni del 1970, L’agonia dell’anguria allunata su pelliccia, una delle sue celebri non-angurie dove il corpo del frutto è sfregiato da una spaccatura, evocazione di quel sesso femminile che diverrà poi assoluto protagonista nelle sue rappresentazioni immediatamente successive.
Questa ambiguità semantica attraversa tutte le opere in mostra, dove il rapporto col naturale non è mai didascalico. In Pierpaolo Campanini il confronto quotidiano e ostinato con un brandello di natura sfocia in una sorta di trasfigurazione del fogliame, bruciato da bagliori che nella pittura di Enrico Minguzzi diventano resine fluorescenti che accolgono una natura in forma di pura espulsione mentale, privata di ogni sostegno alla gruccia del realismo. In Chiara Lecca la presenza del frammento animale sconfina otticamente in altri regni: le bolle alabastrine che si gonfiano come le angurie di Moreni sono in realtà vesciche animali, così come i fiori recisi sono orecchie di coniglio tassidermizzate. Fiori falsi, come quelli ritratti da Samorì nell’olio su Breccia di Vendôme secondo natura, poiché non sono stati dipinti, bensì come “trovati” sulla pietra e costretti a prendere forma attraverso l’assedio del colore che ne minaccia i perimetri rivelandoli al contempo.
Si sa come la natura si piega trasformandosi nello svolgimento delle necessità.
Mattia Moreni
La mostra è accompagnata da un testo critico a cura di Davide Ferri.