Sergio Ragalzi – Virus 1988
Mostra personale con 3 quadri e 5 grandi sculture di Sergio Ragalzi, dalla serie VIRUS, realizzate nel 1988 in occasione di una grande esposizione al Castello di Rivara – Museo d’Arte Contemporanea.
Comunicato stampa
Il 29 gennaio, presso la galleria davidepaludetto|artecontemporanea, si inaugura la mostra personale con 3 quadri e 5 grandi sculture di Sergio Ragalzi, dalla serie VIRUS, realizzate nel 1988 in occasione di una grande esposizione al Castello di Rivara - Museo d’Arte Contemporanea.
Se non fosse che l’idea della morte prevalga su tutto come un a parte teatrale, e occupi lo spazio delle cose umane come un suggeritore che condiziona le espressioni dei vivi, la frase “seduto con gli occhi sbarrati aspettando il nulla” di Sergio Ragalzi potrebbe suonare come il senso di una meditazione.
Ma, nonostante le apparenze, le parole dell’artista torinese sono parole combattenti, già solo per il fatto di essere pronunciate a denti stretti, oscurate a causa del peso e della tensione della gravità incombente. Nelle sue opere Sergio Ragalzi riflette lo sforzo che ogni essere umano compie per costruirsi un’esistenza degna. Dalle fatiche kafkiane che l’individuo percepisce come “malesseri speciali” (F. Battiato, 1983), alle tensioni percepite come comuni, politiche, universali. Di conseguenza SR, che da una parte gioca un ruolo da eremita e dall’altra è, suo malgrado, partecipe di una città pienamente produttiva, prova fino in fondo la partita dell’artista puro, costruendo e ricostruendo figurazioni intorno a totem che potremmo definire primari.
La sua ricerca di equilibrio sfugge la ‘pena’ della serenità, la piattezza
di un’esistenza pervasa di accettazione. Con i suoi relitti prova a ostruire l’ingranaggio e la routine di quelle vite che vanno dal desiderio al caos senza rendersene conto. Attaccato visceralmente alle sorgenti della creazione, SR costruisce di continuo motivi che definiremmo ancestrali rivolgendosi a spettri, feticci, delitti e relitti sessuali. Il tema dell’erigersi, o meglio del sopravvivere eretti, il tema del bipede eroico che resiste malgrado la gabbia disagiante della condizione di animale. SR dichiara e si dichiara guerra, al sé quadrupede, al sé insetto disturbante e al sé ombra atomica. Non post-atomica, si badi, ma pre-atomica, immersa cioè nella condizione
di pre-distruzione che logora per inedia e non per avvenuta deflagrazione. Al pari del paranoico che teme di essere derubato da un ladro che non arriva mai, Sergio Ragalzi opera in una condizione di cecità atterrita e per questo (paradossalmente) resiliente.
Come scrive Rudi Fuchs, le opere di Ragalzi “appartengono alla terra come esseri molto vecchi […], scavate nella pittura, esumate da una pittura pesante e lenta come terra: figure che emergono dalla terra come corpi morti – neri come la Storia” (R. Fuchs, 1986).
Gli anni ottanta sono il decennio del ritorno alla pittura, alla terra, all’uso del sapore locale attraverso un primitivismo energetico, alla citazione e alla valenza espressionista del rapporto con il tratto-colore. Ragalzi, nonostante la presenza e la centralità di tutta questa pittura, fa percepire invero il riflesso di certi minimalismi, ma è evidente che questo minimo non nasca dal nulla, bensì venga fuori dopo un azzeramento violento di una presenza materiale precedente.
Si è detto negli anni che Ragalzi non abbia partecipato alla moda citazionista del periodo e che questa attitudine gli abbia conferito lo status di una sorta di inattualità. È vero nella misura di una ricerca pittorica definitiva, modulare, che si staglia come fenomeno di ossessione pura e che si configura come personale ricerca di materia prima concettuale. Ma è anche vero che egli rappresenta un prototipo di pensiero torinese che si svilupperà ampiamente dagli anni ’80 in poi in un modello post-poverista, reazione al mutamento dei rapporti della città con la sua madre-matrigna Fiat. Il modello lo abbiamo chiamato gotico industriale, ovvero una compresenza di vertigine e barbarie, un sentirsi stranieri in patria, un agire mediato dai colori, dai ritmi e dai materiali industriali ma con spiccata tendenza all’abisso/altezza. Più che un incontro con l’astrazione, dunque, o la necessità di non aderire ad una temperie culturale post-moderna, il suo segno si esprime nel violento abbattimento di ogni forma transitoria di orpello. Ogni elemento infiammabile viene gonfiato e carbonizzato, poi di nuovo fissato nella memoria in forma di fantasma abbrutito, perdente e per finire persino simpatico.
Da qui l’impossibilità di percepire Ragalzi come attore del tragico puro,
ma piuttosto come una sorta di maestro anarchico dal demistificante sorriso, che per troppo rispetto del tragico ne fa sberleffo, carbonella, frammento di futurismo solitario.
Virus è proprio questo: l’emersione di questi valori binari in una dimensione oggettuale pura, urna cineraria e sagoma bidimensionale, installazione o pittura definitive che testimoniano il passaggio
intermedio tra uomo e insetto. Una rappresentazione generativa di un incontrollabile apertura alla pittura in quanto segnale, o come dice Achille Bonito Oliva “l’indicazione di un pericolo a vista dichiarato apertamente e silenziosamente”.