Smith | Nasr | Capote | Suarez Londono
Mostre personali di: Kiki Smith, Moataz Nasr, Yoan Capote, José Antonio Suarez Londono.
Comunicato stampa
KIKI SMITH
Compass
Inaugurazione sabato 28 settembre 2019, via del Castello 11, 18-24
Fino al 6 gennaio 2020, da lunedì a domenica, 10-13 / 14-19
Galleria Continua è lieta di presentare “Compass”, la nuova mostra personale di Kiki Smith. A partire dagli anni '80 l'artista è stata una dei protagonisti internazionali nella disciplina dell’arte figurativa.
“Compass” - che nella traduzione italiana indica sia lo strumento per l'individuazione dei punti cardinali sulla superficie terrestre e in atmosfera, la bussola; sia il compasso, antico strumento geometrico da disegno utilizzato nella costruzione di figure geometriche complesse e nel disegno di circonferenze e archi - raccoglie una selezione dell’ultima produzione dell’artista così come opere inedite. Disegni su carta di riso giapponese (kitikata) e su carta nepalese, arazzi, sculture in bronzo e in alluminio, stampe a contatto su carta fotografica di gelatina d'argento e cianotipie su foglie d'oro. "L'anno scorso, uno studente ha insegnato alla nostra classe come fare i cianotipi. Stavo spiegando agli studenti come usare una matrice di incisione e combinarla con il processo fotografico del cianotipo”, spiega Kiki Smith, “da questa esperienza è scaturito un nuovo gruppo di opere”, una di queste, dà il titolo alla mostra di San Gimignano.
Dopo la fase caratterizzata da opere drammaticamente legate alla fisicità del corpo, a partire dalla fine degli Anni Novanta Kiki Smith concentra la sua attenzione sul mondo esterno. Il suo universo immaginifico si popola di animali e piante, con i quali, come evidenzia l’artista, condividiamo lo stesso destino. Nei lavori degli ultimi anni, diari di vita senza tempo, il registro si fa intimo e poetico; Smith riflette sulla vastità dell’universo, così come sull’anima femminile e quella animale, portatrici di un’armonia originaria oggi in parte perduta. Si spinge a scandagliare gli aspetti spirituali dell’essere umano, a comprendere le esperienze del mondo e del cosmo. Lo fa continuando ad attingere a un ventaglio estremamente ampio di fonti: i testi scientifici settecenteschi, il Medioevo cristiano con i suoi bestiari fantastici e le sue storie di martiri ed eroine, la fiaba luogo per eccellenza di metamorfosi, di passaggio e trasformazione nonché metafora di paure, pulsioni, istinti della psiche umana.
Il disegno per Kiki Smith è il luogo nel quale in maniera più immediata e spontanea l’immagine incontra la materia. Nei disegni che presenta a San Gimignano le donne continuano ad essere protagoniste indiscusse. Le troviamo tratteggiate in volti maturi dagli occhi luminosi come stelle che affiorano dallo sfondo blu intenso della stampa ed ancora, disegnate a matita e inchiostro su carta nepalese, una carta di fibra vegetale lunga, ricavata da un arbusto chiamato Lokta che cresce quasi esclusivamente sulle pendici dell’Himalaya, una forma di vegetazione estremamente resiliente ma anche simile, per i suoi colori caldi, la superficie diafana e la consistenza sottile, alla pelle umana.
Disarmata e vulnerabile è la figura femminile rappresentata in “Congregation”, uno degli arazzi in mostra. La progettazione di un arazzo inizia per Kiki Smith dalla realizzazione di un collage a grandezza naturale che dopo una serie di passaggi viene digitalizzato e stampato. Su questa stampa l’artista lavora nuovamente con inchiostri o acquerelli fino a raggiungere il risultato desiderato e passare quindi il modello al laboratorio di tessitura. L’utilizzo di un telaio jacquard elettronico consente all’artista la trascrizione di disegni estremamente complessi dando anche la possibilità di lavorare su un’ampia gamma di colori e sulla loro intensità. Smith interviene spesso anche a opera finita per impreziosire il tessuto con inserti di foglia d’oro e d’argento oppure dipingendo direttamente sull’arazzo per accentuare gli effetti cromatici.
In “Compass” l’universo celeste incontra quello femminile, consegnandoci l’idea di un’armonia spirituale che l’umanità, auspicabilmente, potrà ritrovare.
Kiki Smith nasce a Norimberga nel 1954, vive e lavora a New York e nella valle dell’Hudson; è professore associato presso la Columbia University e la New York University. Dopo aver esposto in collettive ai margini del tradizionale circuito delle gallerie, inizia a partecipare ad eventi presso le più prestigiose istituzioni internazionali tra queste, nel 1990, il Museum of Modern Art di New York, il Centre d’art Contemporain di Geneva, l’Institute of Contemporary Art di Amsterdam e successivamente, tra gli altri, nel 1993 l’Österreichisches Museum fur Angewandte Kunst di Vienna. Nel 2005 la prima retrospettiva al Museum of Modern Art di San Francisco che viaggia anche al Walker Art Center di Minneapolis, al Contemporary Arts Museum di Houston, al Whitney Museum of American Art di New York e alla Colección Jumex di Città del Messico. Nel 2008 la mostra “Kiki Smith: Her Home” viene presentata al Haus Esters Museum di Krefeld, alla Kunsthalle di Norimberga, alla Fundació Joan Miró di Barcelona e all’Elizabeth A. Sackler Center for Feminist Art del Brooklyn Museum di New York. Tra le Biennali ricordiamo la Whitney Biennial di New York (1991,1993, 2002), la Biennale di Firenze (1996–1997; 1998) e quella di Venezia (1993, 1999, 2005, 2009, 2011, 2017). I lavori di Kiki Smith sono inclusi in più di cinquanta collezioni pubbliche in tutto il mondo. L’artista ha ricevuto molti riconoscimenti internazionali: Lifetime Achievement Award dell’International Sculpture Center (2017), United States Art in Embassies Award (conferitole da Hillary Clinton nel 2013), Theo Westenberger Women of Excellence Award (2010); Nelson A. Rockefeller Award, Purchase College School of the Arts (2010); Women in the Arts Award, Brooklyn Museum (2009); 50th Edward MacDowell Medal (2009); Medal Award, School of the Museum of Fine Arts, Boston (2006); Athena Award for Excellence in Printmaking, Rhode Island School of Design (2006), Skowhegan Medal for Sculpture (2000). Nel 2006 la rivista TIME l’ha indicata tra i “TIME 100”, le persone più influenti del mondo. L’artista è stata eletta membro dell’American Academy of Arts and Letters e dell’American Academy of Arts and Sciences. Nel 2019 per la prima volta un museo pubblico italiano, le Gallerie degli Uffizi, dedica una mostra monografica all’artista: “What I saw on the road”, allestita presso la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti a Firenze, curata da Eike Schmidt e Renata Pontus, il catalogo della mostra nella sua versione inglese è stato realizzato con il con il supporto di Galleria Continua. Dal 18 ottobre 2019 al 9 febbraio 2020 si terrà a Parigi presso The 11 Conti – Monnaie de Paris la prima personale di Kiki Smith in una istituzione pubblica francese. Si è conclusa il 15 settembre 2019 “Procession”, la personale dell’artista allestita al Museo Belvedere di Vienna.
"In un colpo d'occhio e così lontano da trafiggere lo sguardo degli angeli,
vede un posto triste, devastato e deserto:
questo orribile sotterraneo, arrotondato da tutte le parti,
come un grande forno ardente.
Da queste fiamme un punto di luce!
Un torbo e nero baglior tramandan solo, onde si scorge
la tenebrosa avviluppata massa
e feri aspetti e luride ombre e campi d'ambascia e duol, dove non pace mai,
non mai posa si trova, e la speranza
che per tutto penétra, unqua non scende.
Quivi è tormento senza fin, che ognora
incalza più, quivi si spande eterno un diluvio di foco, ognor nudrito
da sempre acceso e inconsumabil solfo”.
John Milton, Paradise Lost
Galleria Continua è lieta di presentare “Paradise Lost", un nuovo progetto espositivo di Moataz Nasr a cura di Simon Njami. Considerato tra gli artisti arabi più importanti della scena contemporanea, nel 2017 Nasr viene scelto dal Ministero Egiziano della Cultura e dal Consiglio Supremo Egiziano per le Arti per rappresentare l'Egitto alla 57° Biennale di Venezia.
"La descrizione apocalittica del mondo realizzata da Milton dopo la cacciata dal Giardino dell'Eden è suggestiva. Lo è perché rappresenta una metafora abbastanza fedele del nostro mondo, precedente o privo di qualsiasi intervento divino. E questo mondo lo dobbiamo unicamente a noi stessi, alle nostre azioni. A ciò che abbiamo fatto e a ciò che abbiamo omesso di fare. La mostra di Moataz Nasr potrebbe essere vista come uno spazio situato a un bivio tra speranza (Paradiso) e disillusione (Inferno). Gli elementi che lo compongono creano una strana risonanza con uno scenario fittizio. Si tratta di un palcoscenico, uno scenario in cui la struttura del vecchio cinema che è la galleria regala una presenza allucinante o allucinata. Cosa c'era in questo giardino di cui abbiamo sentito così tanto parlare? Una montagna, un fiume, alberi, frutti, animali, un serpente e l'umanità, rappresentata dall'uomo e dalla donna. Ritroviamo la montagna, la donna, il serpente. L'albero maestro nella sala cinematografica potrebbe fungere da albero; la struttura che occupa l'ingresso da prisma, da passaggio segreto verso un mondo sconosciuto agli esseri umani. Questa mostra rappresenta quindi un viaggio di iniziazione. Un'immersione inquietante in uno spazio che mescola miti e realtà. " (Simon Njami, 2019).
Attraverso molteplici linguaggi artistici, che spaziano dalla pittura alla scultura, dalla fotografia alla video-arte al disegno, Moataz Nasr affronta problematiche sociologiche, filosofiche, storiche, geografiche, politiche, muovendosi in uno spazio che va dall’Africa al resto del mondo. Legato alla sua terra d’origine ma perfettamente calato nella società contemporanea, l’artista fa della sua appartenenza geografica pretesto per andare oltre i confini politici e religiosi, proiettarsi verso il dialogo tra storie e culture. Tutto il suo lavoro esprime il desiderio di visualizzare dinamiche collettive, partendo dalla registrazione, attenta e sensibile, di personalità singole e universali assieme.
“Fin dall'inizio dei tempi, l'idea di immigrazione in questo mondo è stata una costante ricerca della vita. Gli esseri umani si muovono continuamente. Da nord a sud, da sud a nord (…), lo scopo di questo movimento circolare, infinito e irrequieto, è sempre lo stesso: il sostentamento, la sopravvivenza, la ricerca di una vita migliore”, afferma Moataz Nasr. “Shelter”, una capanna fatta di remi ed installata sul palco dell’ex cinema-teatro, si offre come punto d’approdo accogliente quanto transitorio.
Il mondo Occidentale e quello Orientale si fondono in uno scambio di conoscenza e contaminazione in una nuova opera che s’inscrive nel ciclo “Barzakh”: lo spazio liminale (centrale nella cultura Sufi) che indica l’attraversamento di uno spazio di transizione attraverso il quale si mette in atto una trasformazione che genera una nuova coscienza e identità.
Nel lavoro di Moataz Nasr valori tanto assoluti ed incondizionati, quanto fragili e caduchi come la sacralità della libertà, la sua instabilità, il tributo alla lotta politica e alla difesa dei diritti civili evocano una dimensione universale. Nel video “The Mountain” l’artista ci invita ad esplorare il meno conosciuto dei nostri istinti primitivi: la paura. Una dimensione psicologica che può essere condivisa da ogni essere umano, ma che si trasforma in pregiudizio quando diventa un sentimento collettivo. Nel corso del racconto l’artista ci guida attraverso la nostra incapacità ad accettare l’ignoto e a liberarci dai miti che creiamo per proteggerci; ci esorta alla ricerca della libertà, a guardare oltre ciò che appare definito ed immutabile verso il riconoscimento delle nostre debolezze e la consapevolezza di poterle superare da soli.
MOATAZ NASR nasce ad Alessandria d'Egitto nel 1961. Vive e lavora al Cairo. Tra le mostre personali più recenti ricordiamo: “Moataz Nasr / Hidden Landscape”, Akershus Fortress, Oslo, Norvegia (2012); “The Journey of a Griffin”, Villa Pacchiani Centro Espositivo, Santa Croce sull’Arno, Italia (2013); “Harmonia”, Centro Espositivo per le Arti Contemporanee SMS, San Michele degli Scalzi, Pisa, Italia (2013); “The Divine Comedy: Heaven, Purgatory and Hell Revisited by Contemporary African Artists”, Smithsonian National Museum of African Art, Washington, USA (2015); “The liminal space”, Castel del Monte, Italia (2019).
Tra le mostre collettive più recenti: “The See Is My Land”, MAXXI, Roma, Italia (2013); “Senses of Time: Video and Film-based Arts of Africa”, LACMA Los Angeles County Museum of Art (2015), Los Angeles, The Smithsonian National Museum of African Arts, Washington, USA (2016, 2017); “Metropolis. Afriques Capitales”, La Villette, Parigi, Francia (2017), “Ciao Italia”, Musée National de l’Historie de l’Imigration, Parigi, Francia (2017); “Abu Dhabi Art – Beyond”, Al Jahili Fort, Abu Dhabi, Emirati Arabi Uniti (2018); “The Fabric of Felicity”, Garage Museum of Contemporary Art, Mosca, Russia (2018). Moataz Nasr è vincitore di numerosi premi, tra cui il Grand Prize alla 8° Biennale del Cairo (2001) e il Grand Prize alla 7° Biennale di Sharjah (2005). Ha partecipato a eventi espositivi internazionali: la Biennale di Seoul (2004), la Biennale di Sao Paulo (2004), la Triennale di Yokohama (2005), la Biennale delle Canarie (2008), la Biennale di Lubumbashi (2010), la Biennale di Thessaloniki (2011), la Biennale di Çanakkale (2012), la Biennale di Bogota (2013), la 50. Biennale di Venezia (2003), la 25° Biennale di San Paolo (2004), diverse edizioni della Biennale di Dakar (2004, 2012, 2016). Nel 2017 è stato selezionato per rappresentare l’Egitto per la 57. Biennale di Venezia. Nel 2018 è stato invitato a partecipare alla Biennale di Yinchuan in Cina e alla Mostra Internazionale d'Arte Contemporanea (ICAE2018), a Yarevan, in Armenia. Nello stesso anno è stato inoltre invitato a creare un'opera site specific nei siti storici di Al Ain nel contesto di "Abu Dhabi Art 2018 Beyond". Nel 2019 ha preso parte alla Biennale dell’Avana.
Galleria Continua ha il piacere di presentare per la prima volta in Italia una mostra personale di Yoan Capote. Cubano, classe 1977 inizia a lavorare alla fine degli anni Novanta raggiungendo la sua maturità artistica durante il “Periodo Speciale”.
“Sujeto Omitido” presenta una selezione di opere che hanno segnato l’ingresso di Yoan Capote nell’establishment artistico internazionale: alcuni dipinti della serie “Island” e un gruppo di sculture che contraddistinguono il percorso dell'artista e che si ispirano principalmente ad oggetti, immagini e frammenti di corpi che intendono evocare la presenza dell'individuo rispetto all'assenza o alla condizione anonima. “Il nostro corpo è pieno di simboli ed espressioni la cui rappresentazione ha dato forma a gran parte della storia dell'arte sin dalle sue origini (...) Sento che ci sono idee o esperienze che possono essere espresse meglio attraverso la rappresentazione del corpo o attraverso il corpo stesso”, spiega Yoan Capote. E prosegue: “Sono molto attratto da tutto ciò che riguarda la psicologia e dal modo in cui ci consente di riflettere non solo sui conflitti interni individuali, ma anche sull'ambiente sociale o collettivo... questo mi permette di ampliare l’analisi portandola da una dimensione locale ad una più essenziale o universale”.
Ciascuna delle opere in mostra si focalizza principalmente su riflessioni riguardanti conflitti e temi condivisi in cui l'identità del soggetto non è importante o viene subordinata a riflessioni più globali e collettive. Migrazione, resistenza, manipolazione, stress, alienazione sono tutte esperienze comuni dell'essere umano contemporaneo, indipendentemente dalle differenze di contesto. Sculture come “Stress”, “Self-portrait”, “Speechless”, “Abstinencia” evocano un senso di anonimato; qui l'esperienza collettiva determina o amplifica le preoccupazioni individuali mentre la ‘fisicità’ delle opere rinforza l'uso simbolico dei materiali, il senso di gravità e l’interazione con lo spettatore, elementi che ritroviamo anche nella serie di dipinti realizzati con ami da pesca.
“Il mare è un'ossessione per qualsiasi popolazione insulare... quando ero bambino, racconta Capote, guardavo l'orizzonte e immaginavo il mondo al di là di esso. Il mare per i cubani rappresenta l’aspetto seduttivo di questi sogni, ma anche il pericolo e l'isolamento.” I dipinti della serie “Island” nascono dalla riflessione su un’espressione usata durante la Guerra Fredda per indicare la separazione, territoriale e ideologica, esistente fra i paesi dell’Europa orientale e quelli dell’Europa occidentale, la ‘cortina di ferro’: “quei confini, spesso pieni di filo spinato e muri, mi hanno fatto pensare al ruolo del muro che il mare ha giocato per i cubani” afferma l’artista. Realizzati su grandi dimensioni con ami da pesca e olio su tela i paesaggi marini di Yoan Capote sono concepiti come un’installazione progressiva: sequenza continua di uno stesso orizzonte dove ciascun quadro è un frammento che cattura un diverso momento di luce o oscurità. “Volevo usare migliaia di ami per creare una superficie che diventasse tangibile man mano che gli spettatori si avvicinavano, volevo ricreare l’esperienza tattile di stare di fronte a una recinzione metallica. L’amo da pesca è uno strumento antico che ha mantenuto il suo design nel corso dei secoli; è sia un simbolo di seduzione che di intrappolamento. Il processo di realizzazione di queste opere è molto interessante perché la pittura e il movimento delle pennellate incarna per me il senso di libertà individuale dell'artista, che è completamente troncato dalle aree con gli ami da pesca (…) che limitano le aree di colore come i conflitti politici limitano la libertà soggettiva”, conclude Capote.
Yoan Capote nasce a Pinar del Rio (Cuba) nel 1977, vive e lavora a L’Avana. Dopo aver studiato alla Scuola d'Arte Provinciale di Pinar del Río e alla Scuola d’Arte Nazionale (ENA), nel 1991 si trasferisce a L’Avana dove completa la sua formazione presso all'Istituto Superiore d'Arte (ISA). Durante la VII° Biennale dell'Avana (2000), insieme al DUPP collettivo di artisti, riceve il premio UNESCO. Prende parte nuovamente alla Biennale de L’Avana nel 2003, 2009, 2012 e nel 2019. Nel 2002 vince la borsa di studio del Vermont Studio Center e nel 2006 quella della Fondazione Guggenheim e della Fondazione Pollock-Krasner. Tra le mostre più recenti: “Landlords Colors”, Cranbrook Art Museum, USA (2019); “Cuba Libre”, Ludwig Museum Koblenz, Koblenz, Germania (2016); “On the Horizon: Contemporary, Cuban Art from Jorge M. Pérez Collection, Pérez Art Museum Miami, Miami, FL, USA (2017); “Art x Cuba – Contemporary Perspectives since 1989”, Lugwig Forum für Internationale Kunst, Aachen, Germania (2017); “Adiós Utopia: Dreams and Deceptions in Cuban Art, 1950-2015”, Museum of Fine Arts Houston, Houston, TX, USA; Hirshhorn Museum, Washington D.C., USA; the Walker Art Center, Minneapolis, MN, USA; the Pérez Art Museum, Miami, FL, USA (2017); “Imagined Borders”, Gwangju Biennale, Gwangju, Corea del Sud (2018). Si presenta al pubblico italiano per la prima volta nel 2011, all’interno del Padiglione Cubano, in occasione della 54° Biennale di Venezia. Tra le collezioni che ospitano la sua opera: The Alfond Collection of Contemporary Art, Winter Park, FL, USA; Beelden aan Zee Museum, The Hague, Olanda; Peabody Essex Museum, Massachusetts, USA; North Carolina Museum of Art, Raleigh, USA; Museum of Fine Arts, Montreal, Canada; Pizzuti Collection, Columbus, Ohio, USA; Daros Latinamerica AG, Zurigo, Svizzera; Museum of Fine Arts, Boston, MA, USA; Museum of Fine Arts, Houston, TX, USA; Pérez Art Museum of Miami, Miami, FL, USA.