Social Body
Social Body intende esplorare, senza definire, attraverso il corpo e l’intelligenza emotiva dell’artista, il terreno del Sociale, mettendo in opera liberamente, senza prescrizioni e prevenzioni, forme ed effetti di sensazioni, intuizioni, pulsioni, concetti, scaturiti dal corpo della mente, dalla mente del corpo.
Comunicato stampa
Social Body intende esplorare, senza definire, attraverso il corpo e l’intelligenza emotiva dell’artista, il terreno del Sociale, mettendo in opera liberamente, senza prescrizioni e prevenzioni, forme ed effetti di sensazioni, intuizioni, pulsioni, concetti, scaturiti dal corpo della mente, dalla mente del corpo. La scelta è operata in direzione di un artista consapevole di non essere al servizio di alcuno o alcunché, ma libero di mettere in gioco le sue potenzialità creative nella direzione delle sue scelte, siano esse di ordine ludico, provocatorio, trasgressivo, investigativo, ossessivo.
a cura di Massimiliano Madonna
Artisti in mostra: Mirko Aretini, Seline Baumgartner, Roberto De Luca, Jérôme Leuba, Agnieszka Polska, Augustin Rebetez, Silvano Repetto, Niklaus Wenger, Zimoun.
Con gentile supporto da parte di:
città di Berna
città di Thun
Cantone di Berna
Fondazione Dr. Georg und Josi Guggenheim-Stiftung
Testo critico
Un Corpo Plurale
di Viana Conti
Con la mostra Social Body, ideata e curata da Massimiliano Madonna (gallerista svizzero di origine italiana, nato nel 1976 a Zug, attivo a Berna, dove risiede, ed a Vienna), introdotta dal critico d’arte, filosofo, scrittore svizzero, Konrad Tobler, il progetto Dogana Giovani Idee in transito riconferma la sua apertura al dialogo ed al confronto culturale internazionale. L’ideazione della mostra, la selezione degli otto artisti, la scelta delle rispettive opere, non prescindono dall’immagine storico-politico-sociologica di Genova, grande città portuale del Mediterraneo, già scenario drammatico, nel 2001, di violenza e guerriglia urbana nell’ambito di un G8 che ha lasciato il segno, nonché Capitale Europea della Cultura, nel 2004 . È alla luce di questi eventi che si delinea nel suo insieme e formalizza nei suoi interstizi e nelle sue interrelazioni più profonde la macchina estetica di Social Body: concreto e mobile dispositivo di cattura di un pensiero e di una riflessione sull’immaginario dell’artista, appartenente a una fascia generazionale nata tra gli anni Settanta-Ottanta, e dell’osservatore, sui fattori esterni che possono determinarlo o condizionarlo, sui meccanismi di interiorizzazione di un Habitus, secondo l’ipotesi teorica di Pierre Bourdieu, che riproduca subliminalmente, nella formazione, modelli di capitalizzazione cognitiva indotti dalla cultura dominante. Il progetto estetico, articolato in installazioni, videoproiezioni e animazioni, fotografie, oggetti, non restringe il discorso al momento teorico, di possibile ascendenza scientifica, psicoanalitica, sociologica, ma tende a relativizzarlo, dando invece spazio all’intelligenza emotiva degli artisti e dei visitatori ed all’energia comunicativa dei materiali e degli immateriali, in senso lyotardiano, messi in opera. La mostra si struttura come un organismo, facente capo a un sistema nervoso centrale, o come un insieme molecolare le cui cellule operino autonomamente, in vista tuttavia della tenuta in attività di un corpo? Dal momento che la metafora è mutuata dalla biologia, c’è da chiedersi come il corpo attivi le sue strategie difensive nei confronti di elementi di attacco della sua libertà e integrità. Un corpo plurale è più adeguabile alle interazioni con l’estraneità? Sul piano del sociale, il corpo in quanto soggetto, come progetta di essere attivo e non passivo, agente e non subente? Le opere in mostra rappresentano altrettanti interrogativi che gli artisti pongono a se stessi ed a chi guarda, denunciando come il sistema degli oggetti, dei segni, degli allarmi, che invadono il quotidiano, connoti il consumismo mediatico contemporaneo. A giudicare dal dispiegamento delle tematiche e delle motivazioni sottese alla presente rassegna, non sorprende constatare che oggi, esorcizzando le zone d’ombra, l’alterità, la negatività, di un mondo popolato di illusioni, fantasmi, simulazioni, che hanno messo in seria crisi l’uomo come soggetto, si ottiene l’effetto paradossale di un corpo sociale dominato dall’insicurezza.
L'evento fa parte di "Dogana. Giovani idee in transito". Nella Sala Dogana a Palazzo Ducale a Genova nasce un centro interdisciplinare dedicato alla creatività per dare spazio alle idee giovani.
Per info sulle iniziative di “Dogana. Giovani idee in transito”:
www.gg6.comune.genova.it/dogana
Tel. 0105573967/974/975, [email protected] Facebook: Sala Dogana Genova Twitter: Sala Dogana
Genova Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura - Ufficio Stampa
Tel. 010.5574012-4047-4826 – ufficio [email protected]
Biografie degli artisti e opere in mostra
Mirko Aretini (1984, Sorengo, Svizzera) presenta The body identity, sequenza di video girati a Las Vegas durante il premio AVN (Adult Video News) nell’ambito della rassegna parallela agli oscar del porno, che interroga modalità e motivazioni della mercificazione del corpo in una società segnata dallo spettacolo di massa. The body identity raccontata e filmata da Aretini, divenuta scenario consapevole di uno sguardo assuefatto alla visibilità totale, che contraddistingue tutta la realtà d’oggi, dallo sport al sesso, sembra essere ormai sovraesposta. L’azione in tempo reale scivola nel ricordo, diventa un indefinito déjà vu, in cui lo sguardo sfuma nella visione anestetica. Il ricorso al ralenti, l’assenza di dialogo e la dimensione onirica delle riprese sdrammatizzano l’esibizione consumistica del corpo, delineando scenari di erotismo felliniano in cui i soggetti, come automi meccanici cullati da un carillon a giostra, sembrano regredire a memorie dell’infanzia. In un ossimoro si riflettono e disperdono, in varie forme e mutazioni, anche i personaggi raccontati. Tutti alla ricerca, in un modo o l'altro, del proprio paradiso infernale, scrive l’artista a proposito dei solitari ed inquietanti soggetti che abitano la sua opera filmica, video, narrativa.
Seline Baumgartner (1980, Zurigo, Svizzera) nel suo lavoro di indagine sul campo, analizza, a livello psicologico, l’autonomia o il condizionamento di un individuo in situazione di emergenza, all’interno di un gruppo sociale. Nella videoproiezione I am another, del 2010, riferita all’attentato reale e simbolico alle Twin Towers, quel fatidico 11 settembre 2001, alcuni soggetti, residenti a New York, vengono invitati dall’artista a delineare, davanti alla videocamera, la figura del terrorista tipo, secondo l’idea che se ne sono fatti personalmente e sulla base dell’informazione massmediatica. Ognuno degli intervistati concorre a formalizzare un quadro in cui, di volta in volta, affiora la reazione emotiva, fino alle lacrime, quella razionale, quella di condanna o assoluzione morale, quella dei pregiudizi razziali, religiosi, sociali, politici. Emerge tuttavia, nell’inchiesta, l’autorità del discorso, del Logos, che, nel racconto, trascende il soggetto, facendone un io parlato dal linguaggio, quell’io è un altro, definito dal poeta simbolista Rimbaud e ripreso dal filosofo psicoanalista Lacan, in direzione dell’inconscio, che motiva la scelta del titolo I am another.
Roberto De Luca (1962, Rapallo, Genova, Italia, vive e lavora a Thun, Svizzera) presenta l’installazione Col segno della croce, consistente in due tendoni bianchi di 270 x 130 cm., il cui motivo “decorativo” è la figura, nuda e indifesa, di una vittima delle torture inflitte nelle prigioni di Guantanamo o Abu Ghraib, come si sono viste nei massmedia e nei reportage di Amnesty International. La cruda immagine del prigioniero, rinviante al Cristo crocifisso, è in evidente contrasto con la delicata e raffinata tecnica tradizionale del tombolo, ancora attuale a Rapallo, luogo d’origine dell’artista, ed esprime, in una sorta di cartografia della gestualità, una partecipazione corale al lavoro. Posta contro una vetrata, l’installazione, circonfusa da una mistica della trasparenza, si drammatizza nell’accostamento a un video, che riprende, con la monodia liturgica di un Canto Gregoriano, rielaborato ad opera di Giuliano Palmieri, la malinconica passeggiata dell'artista in un bosco, che è metafora del labirinto della ragione e dello smarrimento dell’essere di fronte alla violenza ed alla sofferenza. Roberto De Luca iscrive nel corpo un’intensa poetica del dolore.
Jèrôme Leuba (1970, Ginevra, Svizzera) , artista che opera sull’area della scultura vivente, del video, della fotografia, dell’installazione, è presente in mostra con due oggetti inquietanti come una maschera da rapina (Battlefield # 32, 2007, cristal clear, translucent balaklava) ed una pannocchia di granoturco (Battlefield # 62, 2010, object 20 cm., real fake tooth) che mostra, al posto dei chicchi, autentici denti falsi. Di fronte a una maschera che invece di celare l’identità del soggetto che la porta la denuncia nella sua trasparenza, essendo di cristallo, lo spettatore non può che restare interdetto, come davanti ad una spiga di mais in cui la parte commestibile sia stata sostituita dallo sgranarsi di un’invidiabile dentatura. Estendendo alla sua opera la denominazione di Campo di battaglia, l’artista ne consegna ai suoi interlocutori la possibile chiave di lettura, sfidandoli, dopo averli spiazzati con le apparenze, a ricorrere al proprio senso critico ed alla propria presa di coscienza, per non diventare vittime di falsi allarmi, facili prede di reazioni incontrollate, di paranoie indotte da mezzi di informazione volutamente ansiogeni. Con molta sottigliezza e lucidità investigativa, l’artista individua situazioni in cui la normalità cambia diametralmente di segno spostando un’insignificante pedina. In un ambiente familiare, come un appartamento, una strada del centro urbano, interviene un elemento incongruo e perturbante, che destabilizza il passante o la folla intera. È pensabile che un assembramento di persone in una fiera d’arte non offra nulla da vedere se non proprio quell’assembramento come intervento d’arte? Normalmente no, ma nei Battlefield di Leuba sì! È alla modalità di formalizzazione di un allarme, pubblico o privato, che si applica la ricerca estetica di questo artista.
Augustin Rebetez (1986, nativo dello Jura, risiede a Mervelier, Svizzera) è esponente venticinquenne di un’arte che rispecchia la ribellione, le intemperanze ed i conflitti generazionali di soggetti che, lontano dalle distrazioni dei contesti metropolitani, vivono immersi nella natura, condividendone bellezza e angoscia, esaltazioni e solitudine. Emblematica in questo senso è la sequenza video-fotografica, presentata a Genova, intitolata After Dark del 2011 (in collaborazione con Nik Taylor e la musica di Pascal Lopinat) , realizzata nell’oscurità della notte norvegese, nella lontana isola di Senja, dalle tipiche case di legno dipinto di rosso, che non mancano di impressionare il suo immaginario. Ne risulta un reportage vissuto intimamente, ma anche condiviso con gli abitanti locali, in cui prende forma il lato oscuro di un mondo dove la realtà si costruisce e decostruisce come un fragile castello di carte, in cui tutto si anima e si immobilizza senza sosta, lasciando negli occhi e nella mente flash di mistero e di paura, il gelo degli aghi di ghiaccio che scintillano sugli alberi. Il suo sguardo attento riprende un mondo di oggetti incongrui, appartenenti a una cultura altra, ad altre sensibilità; ritrae sfilate di personaggi colti frontalmente, in un modo tanto diretto da creare imbarazzo all’osservatore. Tutto quello che ha il volto della collera e non alza la voce è il titolo, altamente sintomatico, di un suo lavoro del 2010. Augustin Rebetez ha la capacità di saper osservare ed oggettivare il contesto esistenziale e generazionale di cui fa parte, restituendolo attraverso un corpus di fotografie, esposte dal pavimento al soffitto, seguendo una sorta di scacchiera asimmetrica, da cui ci si sente guardati nel momento in cui le si guarda.
Silvano Repetto (1968, Morbio, Svizzera, vive e lavora a Lugano) artista, art-promoter, regista e produttore di film, compositore di tracce musicali, noto nel mondo dell’arte per le realizzazioni, dal 1995, delle sue cosiddette Performance Inutili, in cui mette in cortocircuito l’esponibilità, in senso benjaminiano, e la visibilità dell’evento, non comunicando il luogo e la data dell’azione. L’esito di queste sue scelte operative è il gesto di deprivarsi del pubblico, dell’attenzione mediatica mirata e soprattutto di demistificare, con l’ironia e la leggerezza, quel sistema dell’arte che, con strategia sottile e metodo martellante, è volto a produrre un’immagine consumistica dell’opera, tramite le consuete trovate della promozione pubblicitaria. Infiltrandosi, come antagonista, nello stesso contesto in cui lavora, con le sue vanificazioni delle modalità di investimento e di capitalizzazione del prodotto artistico, l’artista ne denuncia la dimensione mercificata ed alienata. Gli appartengono azioni come lanciare dalla Sicilia messaggi in bottiglia verso la Svizzera, Paese tra le montagne, stendere un bucato, che non ha fatto, in un palazzo, dove non abita, vendere per una cifra esorbitante l’invendibilità di una performance di attesa di una persona morta cento anni prima; dal 1997 collabora con l’artista-fotografo Gian Paolo Minelli. In mostra presenta l’installazione Videoelemosina, esposta anche al Museo Cantonale di Lugano, che consta di un monitor in cui figura l’artista, che, come un barbone metropolitano, chiede, seduto sul marciapiede, una carità virtuale: a terra, fuori dal video, un piattino reale invita il pubblico a un lodevole obolo.
Niklaus Wenger (1978, Baden, vive e lavora a Berna ed a Burgdorf) è un artista che, nelle sue installazioni, utilizza preferibilmente il materiale povero, grezzo, come l’asfalto, il gesso, il cemento, la calce da intonaco, spesso di natura instabile come il sale, per privilegiare l’aspetto della precarietà. La componente effimera delle sue opere, sospese tra la scultura, anche da muro, e l’architettura, è leggibile nella resistenza che l’artista oppone alla loro conservazione come oggetto investito di sacralità, come reliquia destinata, da una parte, al Museo, e dall’altra al sistema della mercificazione messo in atto dalla società consumistica. Interessato alla dimensione processuale dell’opera d’arte, sceglie il materiale che più adeguatamente ne esprima le fasi ideative, costruttive/decostruttive, espositive. I suoi interventi mirati nello spazio a disposizione, l’estetica di un cantiere, fisico e mentale, attivo senza soluzione di continuità, la percezione di superficie e profondità, di iper-dimensionamenti di un elemento, di due punti di vista di uno stesso oggetto, di cumuli di macerie, del ribaltamento in estetica della funzionalità di un sedile, ad esempio, posto su parete, sono momenti fondamentali del suo lavoro. In mostra presenta Il ricovero degli artisti poveri II (legno, grafite, viti, gesso, pigmenti, 200x52x52 cm., 2011), installazione rinviante al fenomeno del gusto dell’imitazione, nato con i nuovi materiali prodotti dall’industria e studiati dal design, che porta a una nuova estetica quotidiana, il cui peccato originale è l’inautenticità. Si imita il marmo, dai costi troppo alti, si crea l’effetto legno pregiato, la spugnatura verde rame, la craquelure, l’effetto seta, tutti fattori che aprono la prospettiva di un più elevato status symbol per i soggetti meno abbienti. L’illusione - afferma l’artista - è una realtà inquietante.
Zimoun (1977, Berna, Svizzera) Lungo la rampa d’entrata, lo spettatore è accolto dall’incessante rumore emesso da un’installazione cinetica (216 prepared dc-motors, filler wire 1.0mm., 2009/2010), rinviante alle sculture Minimal degli anni Sessanta-Settanta. Si tratta di una sequenza, lungo la parete, di fili di acciaio mossi da altrettanti mini motori, che visivamente possono rinviare al fluire di una cascata ed acusticamente all’intensità variabile ed intermittente della pioggia. Le mie composizioni audio – dichiara l’artista – non sono tanto finalizzate a un percorso da A a B quanto piuttosto a realizzare architetture sonore statiche e spazi da esplorare acusticamente come un fabbricato. Le sue strutture modulari di cartone o metallo, alte come le pareti di un salone o ridotte alla dimensione di una valigia, accompagnate da piastre di cristallo, microfoni, sfere di cotone, ventilatori, fili isolanti, disseminate di magneti, organizzate nello spazio orizzontalmente o verticalmente, parlano, nelle loro vibrazioni, brusii, crepitii, un linguaggio che non è solo traducibile nel rumore che emettono, ma che mantiene un proprio messaggio segreto, una componente non decodificabile. Sospeso tra il macchinico e l’organico, tra il robotico ed il caotico, tra il reiterarsi ossessivo e l’impulso creativo, il suo lavoro rinvia a una sorta di moto browniano delle masse.